sabato 20 settembre 2014

Vincent Van Gogh: il dramma dell'artista

 
VINCENT VAN GOGH
AUTORITRATTO A SAINT REMY 1889
È Vincent van Gogh, nato il 30 marzo del 1835 a Groot-Zundert, il simbolo del dramma dell’artista che si sente escluso da una società che non utilizza il suo lavoro e ne fa un disadattato, candidato alla follia e al suicidio.
Il suo posto è accanto a Kirkegaard o Dostoevskij: come loro si interroga, pieno d’angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo.
Non è pittore per vocazione ma per disperazione. Nel 1887 scriverà: “Esercito un mestiere sporco e difficile: la pittura. Se non fossi quel che sono non dipingerei e intravedo la possibilità di fare quadri dove ci sarà un po’ di freschezza, un po’ di gioventù, essendo la gioventù una delle cose che ho perduto”.
Aveva tentato di inserirsi nell’ordine sociale ma era stato respinto.
A trent’anni si rivolta e la sua rivolta è la pittura: la pagherà col manicomio e col suicidio.
In un primo tempo, in Olanda, prende di petto il problema sociale e descrive con toni cupi la miseria e la disperazione dei contadini, fino al capolavoro tragico dei Mangiatori di patate. 
VINCENT VAN GOGH - MANGIATORI DI PATATE - 1885
Nel 1886 raggiunge il fratello Theo a Parigi, che lo aiutò finanziariamente e affettivamente fino alla morte, e vede gli impressionisti: abbandona i temi sociali e dal monocromo passa a un cromatismo violento.
Mentre dipingevo ho sentito risvegliarsi in me una potenza di colore più forte e diversa da quella che avevo posseduto finora”.
Nel febbraio del 1888 si trasferisce nella “casa gialla” di Arles e in due anni compie la sua opera d’artista.
VINCENT VAN GOGH - 1887
QUATTRO GIRASOLI APPASSITI
Arrivato in Provenza si entusiasma per la vita solare. Scriverà a Theo: “Abbiamo qui un calore stupendo, intensissimo, un sole, una luce. Com’è bello il giallo!”
Intensifica ancora i colori, abbandonando lo sfarfallamento impressionista a vantaggio di vaste campiture monocromatiche e di larghe striature che danno forma e colore agli oggetti.
Sono i giorni delle infinite tele coi girasoli ma anche della distorsione prospettica della Camera da letto. 

VINCENT VAN GOH - CAMERA DA LETTO - 1888
Paul Gaugin lo raggiunge in ottobre, ma dopo un primo periodo di convivenza armoniosa e ricca di stimoli, il rapporto fra i due entra in crisi.
La vigilia di Natale Vincent colpisce l’amico con un rasoio e Paul, spaventato, lascia la casa.
Nella notte van Gogh ha una crisi di follia e si recide il lobo dell’orecchio sinistro, lo avvolge in un giornale e lo porta a una prostituta.
Dopo questo episodio dipinse alcuni terribili autoritratti.
Lo ricoverano all’ospedale di Saint-Rèmy, dove tornerà più volte colpito da allucinazioni e crisi di schizofrenia.
Il 16 maggio 1890 lascia Saint-Rèmy per Auvers-sur-Oise, vicino a Parigi: “Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello quasi mi casca dalla mano”.
VINCENT VAN GOGH -  NOTTE STELLATA - 1889
Qui dipinse molto, è il periodo degli Ulivi, delle stelle ruotanti sul destino umano della Notte stellata, dei Cipressi, “un cipresso è bello, come un obelisco egizio, è la macchia nera in un paesaggio assolato”, dei ritratti, dei paesaggi come la Chiesa d’Auvers, visione allucinata del piccolo borgo tranquillo, degli alberi tormentati come esseri umani, delle incredibili distese di campi di grano sotto un cielo azzurro piombo con voli di corvi.
Il 27 luglio 1890 si spara una revolverata.
Muore la notte del 29 dopo aver passato l’intera giornata seduto sul letto a fumare la pipa. Addosso gli fu trovata una lettera: “per il mio lavoro io rischio la vita e la mia ragione è quasi naufragata…”

VINCENT VAN GOGH - ALBERI DI ULIVI - 1889

giovedì 18 settembre 2014

Intellettuali: chi sono?

 
L’indefinitezza è già nel termine di quella che è una figura così particolare della società, ossia l’intellettuale.
Ma chi è veramente l’intellettuale, al di là che stia chiuso nel silenzio della sua vita o si butti nella mischia magari lottando per un’utopia?
Le interpretazioni sono varie, quanto le idee.
Un’ipotesi è che sia colui che non fa un lavoro fisico, da immaginarsi con una pila di libri e giornali sotto braccio che passeggia con la testa fra le nuvole, pensando che non val la pena di affrontare il mondo perché, tanto, nel confronto ha già perso.
L’altra, sulla stessa scia, che sia uno che fa un mestiere non codificabile in nessuna categoria. 
SANDRO BOTTICELLI
RITRATTO DI DANTE ALIGHIERI
Per fare un esempio: all’anagrafe la parola «intellettuale» da mettere sulla carta d’identità come professione, non esiste.
Nel caso lo siate, non fatevi venire una crisi di nervi: neanche lo storico dell’arte per l’anagrafe esiste.
Consiglio: buttarsi su pubblicista, giornalista e, nel migliore dei casi, scrittore.
Poi ci sono i vari tipi di intellettuali: uomini d’azione o contemplativi. 
Si parte dalla coppia ossimorica Dante e Petrarca, l’uno collerico che nella pur sua non-azione riusciva comunque a rompere,  e tanto anche, le scatole a tutti, l’altro dal carattere diplomatico e cresciuto nelle delizie della corte di Avignone.

GABRIELE D'ANNUNZIO
Diversi ma intellettuali.
Su questo non c’è dubbio.
Della stessa categoria, con sicuramente molta più azione, il Vate, ossia D’Annunzio.
Intellettuale d’azione «finto» era di sicuro Curzio Malaparte che quando si innamorava si concedeva solo una volta alla settimana per non guastarsi il fisico  ma vero per il suo narcisismo, che pare sia una caratteristica comune a tutti gli intellettuali.
Capostipite dei contemplativi fu sicuramente Guillaume Apollinaire, che passava giornate steso nella sua cuccia fatta di cuscini orientali in morbido velluto. 
MARCEL PROUST

Ma il punto apicale di questa categoria è Proust per cui tutto doveva esistere nella fantasia e nulla nella fatica fisica.
Eppure Paruta, storico, diplomatico e politico, già intorno al 1570 scrivendo «Della perfezione della vita politica», sosteneva che il punto d’incontro tra la vita contemplativa e l’azione è proprio la vita politica. Ma non quella di oggi, ovvio.
Ad ogni buon conto esiste anche l’intellettuale disincantato, un vero fenomeno italico.
RICHARD GERE
Basta guardare la commedia all’italiana, i film di Sordi in primis, in cui nulla potrà mai migliorare.
L’esatto contrario della filmografia americana, dove chi ha ragione avrà ragione per sempre: per credere guardare Ufficiale e gentiluomo con Richard Gere.
Strisciante come un serpente spunta un interrogativo.
Ma allora, come deve essere l’intellettuale?
Bella domanda.
Piacerebbe fosse sempre libero, perché non è la libertà che manca ma gli uomini liberi, quelli forse sì.

mercoledì 17 settembre 2014

Botticelli e le sue allegorie

SANDRO BOTTICELLI
AUTORITRATTO
Spirito arguto e irridente, terrorizzato dall’idea di prender moglie, amava la buona cucina e le allegre compagnie, figura bizzarra, protetto dai Medici ma attratto dal misticismo del Savonarola, trovò nell’arte il supremo equilibrio.
Entrato nella storia con un soprannome così radicato da far cadere nell’oblio il nome vero, Alessandro di Mariano Filipopi detto Botticelli, nasce a Firenze nel 1445.
A 18 anni è nella bottega di Filippo Lippi, entrando in contatto con i Medici, signori di Firenze, destinati ad esercitare un profondo e decisivo influsso su tutta la sua carriera d’artista. 
SANDRO BOTTICELLI
ALLEGORIA DELLA FORTEZZA


Nel 1470 risulta padrone di una bottega tutta sua e gli viene commissionata la sua prima opera pubblica, un quadro allegorico della Fortezza, dal Soderini, console dell’Arte di Mercatanzia, che agiva sotto pressione del Magnifico Lorenzo. 
Una  magistrale perizia tecnica e una perfetta padronanza del mestiere sono i segreti dell’eccellenza artistica del Botticelli: preparava tavole e tele con cura maniacale, stendendo gesso e caseina prima e un’imprimitura in chiaroscuro poi, incideva i contorni con una punta acuminata e usava tempera di colla di pesce e rosso d’uovo mescolate con terre di vari colori, dalla gamma praticamente infinita, e polvere di lapislazzuli per gli azzurri.

SANDRO BOTTICELLI - ADORAZIONE DEI MAGI
Nei suoi personaggi melanconici e assorti, esprime con la straordinaria eleganza della linea la fragilità dell’esistenza, l’incertezza del futuro e il timore della morte. Sandro respira  con ebbrezza l'atmosfera esaltante della cerchia medicea, tanto che la stessa Adorazione dei Magi si trasforma in una parata cortigianesca, con tre generazioni di Medici raccolte in ordine sparso ai piedi del Presepe. Solo una volta si allontanò da Firenze: andò a Roma chiamato dal Pontefice per affrescare alcune scene bibliche nella Cappella Sistina.
Non fu un'esperienza felice e ritornò in patria.

SANDRO BOTTICELLI - LA NASCITA DI VENERE - FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI 
Per la villa di Castello dipinse la Nascita di Venere e la Primavera.  
La prima non è affatto una pagana esaltazione della bellezza femminile: tra i significati impliciti c’è anche la corrispondenza del mito della nascita di Venere dall’acqua del mare e dell’idea cristiana della nascita dell’anima dall’acqua del battesimo.
Il bello che Botticelli vuole esaltare è un bello spirituale e non fisico: la nudità di Venere è semplicità e purezza, è pudica e composta. E' talmente bella che non si nota l'innaturale lunghezza del collo, le spalle spioventi o lo strano modo con cui il braccio sinistro è raccordato al corpo.
O meglio: tutte queste libertà che Botticelli si prese, accrescono la bellezza e l'armonia del disegno, perché accentuano l'impressione di un essere infinitamente tenero e delicato, spinto a riva come un dono del cielo.


SANDRO BOTTICELLI - LA PRIMAVERA - FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI

I significati allegorici della Primavera sono vari e complessi: a destra Zefiro, il vento della buona stagione che insegue e possiede Clori, ossia la terra sterile, e la trasforma nella lussureggiante Flora, che è il simbolo della primavera stessa.
Al centro domina su tutti  Venere, il cui atteggiamento casto e composto fa chiaramente capire come non rappresenti qui l'amore carnale ma quella suprema armonia di bellezza e virtù vagheggiata dagli umanisti. E ancora. Le tre Grazie intrecciano una danza, forse a simboleggiare l'esultanza della natura per il ritorno alla buona stagione, mentre Mercurio solleva la bacchetta per dissipare le ultime nubi: un gesto che allude all'amore terreno, che deve innalzarsi all'amore divino.
Ma per scrutare il mistero e ricercare la chiave della Primavera la strada è ancora lunga.
Ma intanto il clima politico era cambiato, assumendo i tratti aquilini, gli occhi accesi e le guance scavate di un predicatore domenicano in fama di santità: fra Gerolamo Savonarola. Le sue orazioni incendiarie divennero l’argomento del giorno, seminando inquietudine e dissensi e Botticelli ne risentì un forte turbamento interiore.
Con il passare degli anni e il precipitare degli eventi – la morte di Lorenzo, il martirio del Savonarola, il declino della borghesia e le prime avvisaglie della Riforma – la sua ansia diventa angoscia, solitudine, disperazione.
Muore il 17 maggio 1510. Vuole essere sepolto nella chiesa di Ognisanti nella tomba di famiglia, con l’iscrizione ’Sepolcro di Mariano Filipepi e dei suoi’.
Di sé e della sua gloria neppure una parola.

lunedì 15 settembre 2014

Caillebotte, l'impressionista con due anime

 

Gustave Caillebotte - 1876
Uomo alla finestra
Studia giurisprudenza, si laurea ma, invece di fare l’avvocato, progetta barche, fa il marinaio, cura l'orto, colleziona francobolli e dipinge.
Un uomo libero, almeno a prima vista, anche se probabilmente lo era meno di quanto lui stesso immaginasse, perché sembrava avesse due anime in lotta fra di loro: una pragmatica, realista e l’altra sognante e pura.
Non sapremo mai quale era quella a lui più vicina.
Certo, poteva fare quel che voleva perché era ricco, e molto anche, di famiglia.
Diventa anche mecenate, aspetto questo che l'ha reso più celebre che non per la sua vita di artista: compra i quadri di Manet e Degas– che lo fanno entrare nel mondo degli impressionisti -, Cezanne, Pissarro, Renoir e Sisley e, alla sua morte avvenuta nel 1894, li lascia alla città di Parigi che, prima li rifiuta, poi, dopo mille esitazioni e litigi con gli esecutori testamentari – tra cui Renoir - li espone prima al Louvre e ora al Museo d'Orsay.
Strano personaggio Gustave Caillebotte, nato a Parigi nel 1848, con una vita borghese, senza drammi apparenti e senza aneddoti di rilievo.
Nel 1986 il suo nome diventa conosciuto ai più: il museo di Washington e di San Francisco inseriscono i suoi quadri in una mostra sull'Impressionismo.
Una folgorazione.
Si capisce subito che è un artista particolare.

Gustave Caillebotte - Levigatori di parquet - 1875 . Parigi, Museo d'Orsay
E volendo, anche discusso.
L'arte di Caillebotte vira verso una strada mai percorsa, ostica anche per il mondo non bigotto ma borghese della Parigi dell'epoca, lastricata di pettegolezzi per la sua presunta omosessualità, aumentata anche dal fatto che non si sposò mai e visse con la madre fino a che lei morì.
Il suo sguardo, raffinato e intelligente, posato sugli uomini si tramuta in una visione  quasi iper-realista: nudi mentre si asciugano davanti alla vasca da bagno, luogo fino ad allora appannaggio esclusivo delle signore, mentre remano con indosso solo la canottiera o a torso nudo intanto che levigano un parquet con i muscoli tesi dalla fatica.

Gustave Caillebotte - Strada di Parigi in un giorno di pioggia - 1877 - Chicago, Art Institute
E' una visione tutta maschile: le donne non ne fanno parte. Sono poco più di comparse, un contorno piacevole ma non indispensabile in una Parigi popolata di gente alla moda con bei vestiti e sfiziosi cappellini, salottiera e che vuole divertirsi nei cabaret o nei locali alla moda.
Più che l’altra metà del cielo, gli interessano gli interni eleganti del suo palazzo di Rue de Miromesnil - che poi venderà per comprare una tenuta enorme, un buen retiro che non lascerà più - con ambienti all’apparenza scuri ma con la luce che entra dalle finestre per rendere lo spazio pervaso da una chiarezza assoluta.
Uno spazio incrinato nella sua serena tranquillità e riservatezza da uomini (lui stesso?) ripresi di spalle affacciati ai balconi, istantanee di attimi fuggenti eppur così reali: borghesi, eleganti, quasi in posa, fissi come statue che contemplano impassibili la vita che passa al di sotto di quella grande e quasi sproporzionata balaustra: un vero e proprio confine con il resto del mondo.
Che avesse paura di buttarsi  nella mischia del mondo che viveva sotto la sua finestra?
Che si sentisse superiore al punto da estraniarsi e rimanere solo con la sua pittura, le sue abitudini, i suoi pensieri?
Può darsi, d’altronde Caillebotte non era un artista bohemien alla Puccini che vendeva i suoi quadri a pochi franchi per riuscire a mangiare, non era un folle senza un quattrino come Van Gogh e non era un amante dell'esotismo come il fuggitivo Gauguin, eppure dipingeva allo stesso modo dei suoi colleghi impressionisti che sarebbero diventati famosissimi.
Gustave Caillebotte - Strada in salita  -1881
Ma era forse anche di più.
Andava oltre l’impressionismo con quei suoi due modi di affrontare il mondo con pennelli e colori.
Da una parte fotografava la realtà nuda e cruda, com’era, con quella visione dell’uomo così nuova e strabiliante, che di impressionismo aveva  ben poco, con una pittura liscia e perfetta in ogni particolare, senza sbavature o tracce di fantasia.
Dall’altra lui c'era, impressionista fino al midollo, con otto quadri esposti, alla mostra parigina in quell'aprile del 1876, in quella rivoluzione che cambiò per sempre il corso ultra millenario della storia dell'arte.
C'era eccome in quel modo di dipingere non piatto e accademico ma affrontato a muso duro, spessissimo all'aperto con il mondo visto alla luce naturale e reso con pennellate spezzate, libere e sciolte dentro un disegno sapiente di linee e proporzioni.
Gustave Caillebotte - Frutta sulla bancarella - 1881
C'era perché aveva nella sua anima il senso vivo del colore che si ritrova nelle sue nature morte, con la frutta messa in posa come manichini ma viva e fresca, o nell'acqua che sembra che si muova, argentea per i riflessi del sole, o ancora nei parchi, nei boschi e nei cieli dove la natura, splendente, luminosa, ricca di sfumature rese con il pennello che davvero seguiva la mente, quasi sognante, ha il sopravvento su quella piccola cosa che è l'umanità.
Una tavolozza di gioia e di allegria, per rendere la sua vita meno monotona di come era nella realtà e, forse, più felice e libera da convenzioni.
O, almeno, lo speriamo.
 
Sul mio canale YouTube trovate il video su Gustave Caillebotte:

Cezanne: una biografia senza eventi

AUTORITRATTO
Un solitario. Solitario senza volerlo, solitario suo malgrado.
La biografia senza eventi di Paul Cézanne aiuta a capire la sua pittura, che conclude la parabola dell’Impressionismo e forma il ceppo da cui nasceranno le grandi correnti artistiche della prima metà del Novecento.
Rinunciò ad avere una vita propria per fare la sua opera o, piuttosto, ha fatto dell’opera la sua vita.
Abbastanza ricco da vivere del suo, era figlio di un banchiere, si isolò nella sua casa di Aix-en-Provence, dove era nato nel 1839 e dove morì nel 1906, e rinunciò anche ai saltuari soggiorni a Parigi, non mantenendo che rari contatti con gli amici Monet, Pissarro e Renoir.
Anche a questi tuttavia non permetteva di interferire col suo lavoro e lavorava infaticabilmente, sempre insoddisfatto di quel che faceva.
Se talvolta desiderava il successo che gli era stato negato ai Salons des Refusès e alle mostre degli impressionisti, non poneva il minimo impegno per ottenerlo. 
MONTAGNE SAINT-VICTORIE
Concepì la pittura come pura, disinteressata ricerca della verità, simile a quella dello scienziato o del filosofo benché diversa nel metodo.
Si era formato senza maestri, cercando di cogliere il nucleo espressivo e la struttura profonda delle opere degli antichi, da Tintoretto a Zurbaran, e dei moderni, da Delacroix a Daumier.
Fin dal 1878 mostra il suo desiderio di “fare dell’impressionismo qualcosa di solido come l’arte dei musei” ed evolve verso un’espressione sempre più lirica, inventando un nuovo modo di tradurre lo spazio mediante il colore e dando in questo modo alle sue tele una straordinaria coesione. 
JOUEURS DE CARTES
Studiando i paesaggi vedeva lo slancio creatore della Natura, di cui percepiva le forze. Considerava il mondo in fieri: “Voglio dipingere la verginità del mondo, dunque intreccio queste mie mani erranti, prendo a destra, a sinistra, qui e lì, dappertutto, i suoi colori, le sue sfumature, li fisso, li accosto fra loro, e formano linee, diventano oggetti, rocce, alberi, senza che io ci pensi”.
E in una delle ultime opere, una delle tante immagini della Montagne Saint-Victoire, le sue “mani erranti” fanno sì che gli azzurri e i grigi del cielo invadano il monte e la pianura come il verde degli alberi colora le nuvole, con la frequenza delle pennellate larghe e trasparenti che scompongono l’immagine in una continua sfaccettatura di prismi rifrangenti. 
Tra il 1890 e il 1895 dipinge opere fondamentali: nei Joueurs de cartes tratta la figura umana come un motivo qualsiasi, alla stessa stregua della natura morta, uno dei suoi soggetti preferiti e in Pommes et oranges sconvolge le leggi tradizionali della prospettiva, riunendo gli oggetti per il loro valore plastico e cromatico, come se si trattasse di una composizione astratta. 
POMMES ET ORANGES
ONCLE DOMINIQUE
Dipinse poi una serie, i ritratti dell’Oncle Dominique, dove risolse il problema del volume con lo spessore della materia steso con la spatola.
La femme a la cafetiére annuncia le figure dipinte da Picasso e Braque tra il 1910 e il 1914 e Cèzanne appare qui come il “primitivo di un’arte nuova”.
 
LA FEMME A LA CAFETIERE

Alla morte di Cèzanne, Picasso aveva già cominciato a dipingere Les mademoiselles d’Avignon.
La ricerca cubista deve molto al provenzale, il primo ad asserire per la pittura una nuova funzione, quella di costruire una realtà propria, indipendentemente dal dato naturale o emotivo: principio che è alla base di tutti gli sviluppi della pittura moderna.




sabato 13 settembre 2014

Tiziano e la morte


Tiziano - Autoritratto - 1562
Berlino, Staatliche Museum
Era nella materia bruta del colore e in tutte le sue sfumature più incredibili che Tiziano aveva annegato il pensiero della morte, che negli ultimi anni della sua vita aveva incontrato tante, troppe, volte per la perdita di persone a lui carissime.
E queste perdite si erano trasmutate in un nuovo modo di dipingere, come se le sue emozioni si tramutassero in colore, prima ancora che in pensieri.
Il colore era la sua passione e la sua ossessione. Palma il Giovane, suo allievo, diceva che su ogni quadro Tiziano «gettava macchie di colore, per poi metterci le mani per plasmarlo e ottenere quei risultati spettacolosi».
Palma conosceva bene la tecnica del pittore cadorino, lavorò con lui e, alla sua morte, finì lui stesso la Pietà, che avrebbe voluto sopra la sua tomba nella basilica dei Frari, ora all’Accademia, il testamento spirituale del maestro. 
Ma in quel quadro, l’orrore per la morte diventa qualcosa di visibilissimo e agghiacciante. 
Tiziano - La Pietà, particolare - 1576
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sotto il basamento di una colonna con la testa di un leone scolpita in pietra, aveva dipinto un particolare che mette i brividi: un piccolo ex voto con lui e Orazio inginocchiati a mani giunte davanti alla Madonna.
Era forse una supplica angosciata per preservare lui e il figlio in quei giorni bui e terribili?
La peste stava sconvolgendo Venezia e il suo Cadore dall’aria pulita, cristallina e sana era troppo lontano, quasi un miraggio.

Chi sa quante volte aveva pensato di ritornare a casa, lui, che amava firmarsi “Titianus cadorinus”.
Ma quel viaggio salvifico non lo intraprese mai.
Neanche la pittura lo avrebbe salvato da quell’appuntamento ineludibile, da quel viaggio sconosciuto.
Tiziano - La Pietà - 1576
Venezia, Gallerie dell'Accademia
E nemmeno la gloria immensa che lo aveva accompagnato per tutta la sua lunghissima esistenza gli sarebbe servita a qualcosa.
Quella stessa gloria che aveva fatto inchinare un imperatore, Carlo V, per raccogliergli un pennello mentre gli stava facendo un ritratto.
E non avrebbe nemmeno risparmiato l’adorato figlio Orazio, che lavorava con lui.
No, la peste era maledetta, non guardava in faccia a nessuno.
Ma in quel maledetto agosto del 1576, i conti con la signora in nero, doveva proprio farli.
Non riuscì neanche a finirla la Pietà.

Morì il giorno 28, con il pennello in mano.
Si racconta che fu la peste a portarlo via dal mondo terreno, ma forse, fu il dolore, lancinante, a prenderlo per mano e portarlo con sé nei meandri invisibili dell’aldilà.

venerdì 12 settembre 2014

Toulouse-Lautrec e il suo mondo favoloso

Henry de Toulouse Lautrec
Autoritratto - 1882
Albi, Musèe Toulouse Lautrec
Toulouse-Lautrec.
Il solo nome evoca personaggi divenuti favolosi grazie a lui: cantanti di cabaret, ballerine del Moulin Rouge, ospiti di case chiuse, clown e acrobati.
Mimi, ballerine, prostitute: sono loro i corifèi della comèdie humaine.
Eccoli i temi prediletti di Henry, nemico del paesaggio nel quale vedeva solo un accessorio. “Il paesaggio – diceva – deve servire solo a far conoscere meglio il carattere del personaggio”. 
La vita di Henry de Toulouse-Lautrec, sempre in bilico fra angoscia e furore di vivere, inizia nel 1864 ad Albi, dove nasce da famiglia di antica aristocrazia.
Amante della vita all’aria aperta e dell’equitazione, destinato a condurre una tranquilla esistenza da signore di campagna, è condannato, per due cadute da cavallo che gli spezzarono le gambe impedendone il successivo sviluppo, a rimanere deturpato fin dall’adolescenza.
Henry de Toulouse Lautrec - Ballo al Molin Rouge - 1889
Filadelfia, Museum of Art
Generoso e insieme feroce osservatore dell’umanità, si getterà nel mondo dei caffé-concerto, delle sale da ballo e della prostituzione, dove un lusso fittizio nasconde le miserie intime, le degradazioni inconfessate, dove si sentirà meno infelice, meno anormale che nell’ambiente della sua famiglia, attaccata a rigidi pregiudizi di classe.
Nei suoi effimeri personaggi, Lautrec dà prova di una grande efficacia evocativa: se la caratterizzazione è spesso cruda, la freschezza dell’immagine riesce sempre a riscattarne la volgarità, come nei ritratti di Jane Avril, ballerina ammirata per la sua abilità, che ritrasse più volte, o di Yvette Guilbert, cantante celebrata da letterati e artisti che, dopo essere stata commessa e indossatrice, divenne una delle massime vedettes della bellè epoque parigina. 
Henry de Toulouse Lautrec
Yvette Guilbert
A Lautrec scrisse: “Per l’amor del cielo, non fatemi così atrocemente brutta!”
Anche le case chiuse, che frequentava assiduamente, sono descritte con acutezza, con quella ricchezza e quel lusso di facciata che nasconde la povera umanità delle ragazze in attesa e l’intima miseria dei frequentatori.
Molti hanno scritto del legame con Degas e dell’esplorare questo mondo di fatiscenti incantesimi, entrambi appartenenti a un’alta classe sociale, entrambi attirati dalle luci della ribalta, dai volti carichi di trucco, dalla trasandatezza dietro le quinte.
Henry de Toulouse Lautrec
Ballerina seduta - 1890
Collezione privata
Ma Degas non si lascia commuovere dal modello, Lautrec invece osserva intensamente l’espressione di uno sguardo, la personalità crudele, spiritosa o bestiale di un profilo.
Alle anonime ballerine di Degas, Henry oppone la patetica individualità degli esseri umani.
La scoperta poi delle stampe giapponesi avrà un’influenza notevolissima, suggerendogli il gusto della semplificazione e lo spazio bidimensionale definito dalla linea continua e dalle stesure piatte di colore.
È stato il primo a intuire l’importanza di quel nuovo genere artistico, tipicamente cittadino, che è la pubblicità: disegnare una affiche o la copertina di un programma costituiva un impegno non meno serio che fare un quadro.
Henry de Toulouse Lautrec - 1891
Moulin Rouge a a La Goule
 Il primo, Moulin Rouge e La Goule, lo esegue nel 1891, con protagonista la ballerina di can can o Divan Japonais, realizzato nel 1893 per pubblicizzare l’apertura del locale.
È nella definitiva rinuncia all’arte-contemplazione per l’arte-comunicazione la ragione della sua straordinaria attualità, di cui Picasso si accorse per primo.
Henry de Toulouse-Lautrec muore nel 1901 a 37 anni, logorato dalla sua esistenza febbrile e dalla sua frenesia di vita.


Henry de Toulouse Lautrec - Al Moulin Rouge - 1892  - Chicago, Art Institute

Nel mio canale YouTube il video su Henry de Toulouse Lautrec:
https://www.youtube.com/watch?v=Wfo0_qCmPiI


 

giovedì 11 settembre 2014

Ingres e l'amore per la moda femminile

DOMINIQUE INGRES
PRINCESSE DE BROGLIE
Dominique Ingres, il maggiore pittore neo classico, amava Raffaello più di ogni altro pittore, perchè  per lui era il faro da seguire ma nei dipinti di storia, i dipinti classici per eccellenza, non eccelleva poi un granché.
Avrebbe forse dovuto fare il couturier, se avesse avuto un’altra vita a disposizione, perché la sua sensibilità era frusciante come la seta, morbida come il velluto e ricca come un damasco.
Avrebbe avuto un successo straordinario, pari a quello avuto come pittore, vivendo in due città come Parigi e Roma che in quel periodo, la prima metà dell’Ottocento, vivevano di bellezza, di moda e di seduzione nei salotti buoni, all’opera, a teatro e nei locali alla moda.
DOMINIQUE INGRES
BARONESSA DE ROTSCHILD
Si racconta che fosse insopportabile con le signore, tutte ricchissime o nobili, che decidevano di farsi effigiare da lui.
Si sa di infinite lettere con discussioni se mettere o no le rose o il velo nei capelli, su quali gioielli indossare, se tenere a fianco la figlioletta, che non ne voleva ovviamente sapere di stare immobile per ore, fino a levarla di mezzo e ritrarre alla fine solo la madre.
Perfino Baudelaire se ne era accorto: “Ingres adora il colore come un mercante di moda”.
Ingres amava la moda femminile, non solo il colore.
Quindi amava anche gli accessori: ventagli vezzosi tenuti in mano con garbo o scialli gettati con nonchalance sui cuscini che avvolge la figura e crea un ambiente ancor più sofisticato.
  
DOMINIQUE INGRES
MADAME DE SENNONES
Adorava, evidentemente, anche i pizzi, simbolo di sensualità per la loro trasparenza che faceva intuire ma non vedere le forme magari abbondanti delle signore.
E li amava perché li rendeva perfetti in ogni loro dettaglio, come avrebbe fatto un pittore fiammingo in una di quelle nature morte che parevano vere.
Adorava i panneggi ed era straordinariamente abile nel rendere i riflessi del taffetà, al punto che si riesce, guardando attentamente, a percepire il leggero crepitio che fa quando lo si tocca. 
Rendeva al meglio la consistenza del velluto, la sua morbidezza così pesante ma elegante tanto che sembra di sentire le sue parole quando diceva che bisogna “fare della pittura scultorea”.
E anche se le pose sono tutte ugualmente languide, le signore tutte sedute che guardano verso destra, che quasi mai sorridono, che pare addirittura che si somiglino, i ritratti femminili di Ingres hanno ognuno un carattere differente proprio per le stoffe scelte, come neanche il migliore dei costumisti o scenografi della Hollywood dei tempi d’oro avrebbe saputo fare.
E le signore ringraziano.

Manet e i suoi quadri scandalosi

 
Eduard Manet - Le dèjeuner sr l'herbe - 1863 - Parigi, Museo d'Orsay
Le dèjeuner sur l’herbe, esposto al Salon des Refusès del 1863 col titolo Le bain, punto di approdo di anni molto intensi, fu dipinto in atelier, secondo una pratica costante di Manet, e, oltre al fratello e al futuro cognato, posò la sua modella preferita Victorine Meurent.
Lo scandalo suscitato dal dipinto non era motivato dal soggetto in sé ma dal suo “trattamento volgare e provocatorio”.
Non si tratta infatti di un nudo accademico, ma di un ritratto di donna nuda, anzi, che si è spogliata. E all'epoca non stava per niente bene, specie se davanti a tutti.
Chiaramente è poi riconoscibile la modella e il suo sguardo, puntato senza reticenza sullo spettatore attirato così in un ambiguo rapporto di complicità, che risultava al pubblico benpensante dell’epoca ancor più indecente della nudità esibita.
E ancora la sollecitazione sensuale della stupefacente natura morta che ai resti del pic-nic aggiunge le vesti abbandonate della donna: la conferma che proprio lì si era tolta i veli.
Due anni dopo Manet presenta al Salon la tela con Olympia, che provocò uno scandalo ancora maggiore del Dejeuner.
Un giornalista del tempo riferisce che la gente si affollava davanti al nudo con la “stessa morbosa curiosità con cui si va a osservare un cadavere all’obitorio”.
Eduard Monet - Olympia - 1865 - Parigi, Museo d'Orsay
Olympia, una Venere caduta da un improbabile Olimpo e rivisitata dal capolavoro di Tiziano. Esibisce sì freddamente le sue carni nude a prezzo fisso ma è anche esemplare per la sua sincera antiretorica e smitizzante, per l’audace linguaggio con cui Manet semplifica le forme e schiaccia il modello attraverso piatte stesure di colore, riuscendo a evidenziare i volumi mediante l’equilibrata composizione delle parti chiare e scure.
Al Salon si levarono gli scudi contro la giovane stesa sul letto, ma con lei Manet inventò il nudo moderno.

mercoledì 10 settembre 2014

Canaletto e la sua Venezia

Canaletto - La riva degli Schiavoni verso est con la colonna di San Marco
1730 - Milano, Castello Sforzesco
E’ preciso nei particolari ma non è fedele al vero, con quelle ombre scure, la pennellata grassa, densa di colore, talvolta sfrangiata, con il gusto compositivo delle diagonali ancora così scenografico e con i rapporti cromatici rivolti a un’evocazione fantastica.
Con un senso quasi fiammingo di realismo, Canaletto non smette mai di interessarsi alle cose di Venezia: la posa di un gondoliere, una figura in maschera, il lampo della luce su uno scalino, le tegole di un tetto, una statua che si staglia, bianca, contro un cielo azzurro e frizzante.
Un’immagine simbolo come La riva degli Schiavoni verso est con la colonna di San Marco, proveniente dalla Civica Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano dipinta nel 1730, è tutto questo e anche di più.
La totale trasparenza dell’aria rende reale lo spazio come lo intendeva Newton – sempre omogeneo e immobile – e in quello spazio gli edifici, Palazzo Ducale in primis, sono blocchi netti, privi di interferenze reciproche, coerenti, ubbidiscono a un ideale cristallino. E quanto lontano arriva lo sguardo, il dettaglio si offre incontaminato nella sua leggibilità, quale che sia la distanza dell’osservatore.
E l’acqua, icona ineludibile di Venezia? Si dà uniformemente, con l’invenzione di un segno iterativo – inimitabile nel suo carattere ingannevolmente meccanico – con il movimento magicamente fermato, tanto che le barche non lasciano nessuna scia.
Un’immagine piena di aria e di luce, dove il cielo è veramente cielo e dove le nuvole non chiudono l’orizzonte ma ne dilatano ancor di più la vastità, dove interviene la sua fantasia, il suo particolare gusto della materia, il suo senso architettonico e compositivo, la sua visione del mondo.
La luce splendente e le ombre marcate modellano gli edifici, creando l’illusione, al di là di quella precisa veduta, di guardare nella città che si avverte molto più estesa, dietro un angolo, dietro l’ultima facciata, dietro  i campanili. Non si osservano solo marmi, mattoni o calce, ma la vita stessa, che si sente procedere con serena imperturbabilità.
Altro che fotografo!
La camera ottica gli serviva sì, ma le sue vedute sono delle “belle infedeli”, permeate di quello spirito tutto veneziano così amato dagli inglesi, ma che mai sarebbero stati capaci di trovarne traccia in quei guizzi di colore che per incanto diventavano due belle fanciulle intente a parlare magari del loro nuovo amore o di quei due ragazzini che fan baruffa intorcolati come matasse di filo da pesca.
Quella di Canaletto era la stessa Venezia di Casanova, scandalosa e viva, libera e libertina, tanto da far scrivere a Lord Byron “che una signora che abbia un solo amante non può essere accusata di violare la santità del matrimonio”.
La stessa Venezia fatta dal patriziato, dai mercanti, avvocati e notai, letterati e artigiani ma anche la Venezia del popolo dei poveri, dei servi e dei barcaroli, delle prostitute e dei mendicanti che si mescolavano con gente di ogni razza, lingua e religione e che ne facevano una città cosmopolita e vivissima.