lunedì 27 ottobre 2014

Paul Gauguin. Te Tamari No Atua: la sacralità dell'amore


PAUL GAUGUIN - TE TAMARI NO ATUA - 1896
Con Te Tamari No Atua – la nascita di Cristo figlio di Dio – dipinto nel 1896, Gauguin vuole dare visivamente il senso dell’innocenza e dell’integra morale degli indigeni, la cui sessualità non repressa, immune da complessi di colpa, porta alla rivelazione della profonda sacralità dell’amore.
I fantasmi erotici che pervadono il sonno della ragazza si materializzano nell’immagine di una Santa Famiglia indigena con, accanto alla figurazione cristiana, i simboli di un paganesimo primitivo evocati dal palo dipinto che allude alla continuità, all’unità del sacro.
Non c’è simbolo né allegoria: la Santa Famiglia non appare tra le nuvole, ma è lì, accanto al letto, la stalla con i buoi è un elemento dell’iconografia tradizionale del presepio ma è anche un elemento a sé, che allude alla legge naturale e divina dell’amore tra gli esseri viventi.
Certo Gauguin ha veduto e rammenta la ragazza dormiente, ma è nella memoria che si svela il senso di ciò che ha veduto.
Allora tutto prende significato: la figura sola nel letto nuziale, il suo composto abbandono, la coperta gialla che diventa un alone di luce intorno al corpo bruno, i quadri sulla parete che prendono vita.
E poiché l’immagine occupa uno spazio e un tempo interiori, non possono esservi effetti di luce e la luce emana dalle cose stesse, come dal contrasto del corpo olivastro e della veste turchina col giallo chiaro del letto.
Blu e giallo sono colori complementari, sommati danno il verde e verdi sono le ombre della coperta, verdi e blu i colori dominanti del fondo.
Non è l’istante fermato né il tempo che scorre: è un tempo remoto e profondo su cui l’immagine del presente si adagia come una ninfea sull’acqua ferma.

sabato 25 ottobre 2014

Edward Munch: l'angoscia di vivere

MUNCH - AUTORITRATTO ALL'INFERNO
Non si può dipingere eternamente donne che sferruzzano e uomini che leggono. Voglio rappresentare esseri che respirano, sentono, amano e soffrono. Lo spettatore deve prendere coscienza di quel che c’è di sacro in noi, di modo che si scoprirà davanti a loro, come in chiesa”.
Eccolo il pensiero di Edward Munch, che intende rappresentare i sentimenti e comunicarli, così come gli impressionisti sentivano la necessità di rappresentare la luce.
È questa la sua rivoluzione: sostituire alla rappresentazione delle cose materiali quella di entità non rappresentabili.
Proveniente da una Scandinavia in crisi – dove Kirkegaard è guida intellettuale – Munch, che era nato a Løten nel 1863, giunge a Parigi. 
MUNCH - LA MALINCONIA - 1894
Dagli inizi degli anni ’90 Edward dividerà il suo tempo fra il suo paese natale, la Norvegia, Parigi e la Germania, luoghi in cui da appassionato studente si trasformerà in precursore.
Passaggio decisivo per l’influenza di Munch sulla nuova pittura tedesca fu la sua mostra berlinese del 1892, che per la scandalosa maniera pittorica e i soggetti inquietanti e trasgressivi rispetto alla morale e al modo di pensare correnti, divise il mondo artistico della capitale prussiana.  
I titoli dei suoi quadri – come L’urlo, a proposito del quale scrisse “sento il grido della Natura”, Pubertà, La Vampira, Malinconia, La morte in camera – indicano piuttosto chiaramente una tematica morbosa che unisce l’angoscia della morte alla sessualità.
MUNCH - IL FREGIO DELLA VITA, LA DANZA DELLA VITA
Nella capitale tedesca, vivendo in solitudine e senza vita sociale, intraprende  Il fregio della vita, opera alla quale afferma di aver lavorato per trent’anni, che concepisce come una serie di immagini legate soltanto dal contenuto.
Per lui l'esistenza non è altro che dolore e morte e per drammatizzare i suoi quadri, utilizzerà sempre il procedimento del primo piano molto frontalizzato che si staglia su uno sfondo prospettico, disposizione spaziale che avrà come conseguenza quella di sopprimere l’illusione della profondità che invece il reticolo prospettico della tela sembrerebbe creare.
L’impiego di grosse linee colorate, che delimitano campiture uniformi, la divisione delle superfici in fasce di colore, che confondono l’articolazione del piano e i suoi limiti, costituiranno un punto di partenza per la ricerca sulla funzione di chiusura della linea. 
MUNCH - L'URLO - 1885
Le incisioni su legno per le quali Munch è forse ancor più celebre che per i suoi quadri, unendo la frontalità spaziale a uno studio sulle trame del supporto e mettendo a confronto la superficie colorata con il bianco del contorno non inchiostrato, rimangono opere fondamentali e operano un mutamento radicale nell’estetica dell’epoca.
L’incisione più famosa è senz’altro L’urlo, che ripete in varie versioni: qui Munch mira ad esprimere come un’emozione improvvisa possa trasformare tutte le nostre impressioni sensibili.
Tutte le linee paiono convergere verso l’unico centro della litografia, ossia la testa urlante ed è come se l’intera scena partecipasse all’angoscia e all’emozione di quel grido.
Il volto è deformato caricaturalmente, gli occhi fissi e le guance incavate ricordano un teschio.
Ormai famoso in tutta Europa, nel 1908 ha una crisi di depressione nervosa e resta per un anno in una clinica di Copenaghen: ne uscirà apparentemente più tranquillo ma la sua pittura continuerà a denunciare il suo tormento interiore.
Muore a Olso nel 1944.
E chi sa se è riuscito a trovare un po' di pace.

mercoledì 22 ottobre 2014

La notte buia della pittura

 
Era una notte buia e tempestosa…”
Del suo romanzo, Snoopy, il bracchetto leader maximo della filosofia della felicità, non va oltre l’incipit: come va a finire non lo sapremo mai, anche se abbiamo letto il racconto Paul Clifford che Edward Bulwer-Lytton scrisse nel 1830 da cui sono tratte quelle sei parole.
Eppure, quelle sei parole sono state capaci di varcare l’universo del surreale, dell’impenetrabile e, forse, anche del mistero della nascita delle emozioni.
Chi non ha pensato quale era il pensiero che l’ha spinto a scrivere quelle sei parole?
Quale emozione gli sarà venuta in mente? 
CARAVAGGIO -
SAN GIOVANNI BATTISTA - 1610
Era triste o felice? Aveva paura del futuro o era pieno di speranze?
E allora perché non chiedersi se anche dietro a certi dipinti di Caravaggio o Van Gogh ci sia mai stata una notte buia e tempestosa?
Magari una medium ci riuscisse a svelare tale mistero.
Ma se la medium non ti trova e sei ormai troppo lontano e inafferrabile, allora prova a spiegarlo tu, mio amato Caravaggio, genio lombardo catapultato nella capitale.

Avevi bevuto troppo o forse avevi passato una notte tormentata in compagnia di una puttana?
Immagino che ti faccia inorridire il solo pensare che qualcuno ritenga verità una simile ipotesi: troppo facile, troppo banale, troppo da fiction televisiva di squallidi sceneggiatori.
Sembra di vederti, che sbraiti e urli ma anche che sussurri angosciato.
Nel pieno della tua solitudine cosmica, ciò che ti ha guidato la mano era forse l’intuizione che con pennelli e colori potevi rendere vivo e tangibile quel sentimento così complicato che è la Fede?
Sì, mio caro, ci sei riuscito, eccome se ci sei riuscito, e in maniera così potente, visibile e comprensibile come nessun prete, frate o papa sarebbe mai riuscito a fare.
O che hai reso accettabile anche quel che la Chiesa aborriva come il diavolo, dipingendo ragazzi dalla bellezza eterea tramutandoli in santi?
Cose troppo grandi per noi miseri umani.
Ancora notti buie per l’olandese trapiantato nella dolce e profumata  terra di Provenza, grandioso e irripetibile quanto tormentato e disperato.

VAN GOGH - CAMPO DI GRANO CON CORVI - 1890
Quanta angoscia hai messo nei tuoi corvi neri che fai aleggiare sopra un campo di grano o nelle nuvole che diventato vortici che paiono esseri viventi, malvagi, quasi che ti vogliano portare via, ripetute tante volte come un’ossessione?
 
E' forse l'ultimo quadro che hai dipinto, una sorta di testamento tragico.
Di te cosa volevi che rimanesse? 
Hai dipinto il tuo autoritratto con quell’occhio destro di un verde intenso e memorabile, con l’energia aumentata in modo esponenziale dalle pennellate blu che lo circondano, per far capire che tu sei il tuo sguardo?
Che quel che i tuoi occhi hanno visto hai restituito nei tuoi quadri? 
VAN GOGH - AUTORITRATTO - 1887
Che se non avessi avuto allucinazioni e attacchi di follia tanto da passare mesi rinchiuso in manicomio, se non avessi detto che la tristezza durerà per sempre tanto da finire la tua vita tormentata sparandoti un colpo di pistola nel petto, non ci avresti lasciato tal capolavoro?
Domande senza risposta?
No.
Lo sciogliersi del dubbio sta nella pittura.
Già la pittura, un bisogno delle pulsioni dell’anima, il trascolorare delle impalpabili angosce e delle felicità umane in un qualcosa di reale, visibile e duraturo.
Il vero universo delle sensazioni sconosciute, del mistero, ma non quello che pennelli e colori raccontano al primo impatto, bensì quello del come nascono certe immagini, quelle che non ti dimentichi, quelle che ti restano per sempre dentro il cuore e sulla pelle.  

lunedì 20 ottobre 2014

Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura

HOKUSAI - AUTORITRATTO - 1842
 Katsushika Hokusai nacque a Edo nel novembre 1760, da un intagliatore di specchi.
A diciannove anni va nel laboratorio di Katsukawa Shunshou, uno dei principali interpreti della tradizione ukiyo-e, corrente artistica in contrasto con la tradizione accademica traducibile con “le immagini del mondo fluttuante”.
Da questo momento e per tutti i rimanenti settant’anni della sua vita, si dedicò con fanatica energia alla pittura e ai disegni destinati alle xilografie. Dalle sue mani uscirono non meno di trentamila disegni e illustrazioni per cinquecento libri.
HOKUSAI - FIORI
Conduceva una vita eccentrica e senza riposo, cambiò nome più di trenta volte e traslocò non meno di novantatre, magari anche due volte nello stesso giorno.
In una vita sciagurata e turbolenta di questo genere, abbandonato da tutti salvo che dalla figlia, era sostenuto soltanto dalla dedizione all’arte.
Colosso della fantasia definito “il vecchio pazzo per la pittura”, alla morte di Shunshou, seguitò per un poco il genere delle stampe ukiyo-e dei suoi esordi, raffigurando soprattutto attori e scene di teatro, poi raccolse l’eredità di un grande maestro, Sori, e divenne Sori II.
HOKUSAI - YAMA - UBA
Come tale, immaginò personaggi che, memori di Utamaro, si allungano e si flettono in pose improbabili eppure straordinariamente aggraziate, malinconiche e distanti dal mondo, spesso distribuite sul foglio come note su un pentagramma, in cadenze lievi e astratte.
A sessant’anni Hokusai pensò al paesaggio riservando ad esso un ruolo nuovo: è il momento, questo, dello strappo definitivo rispetto alla tradizione iconografica e formale della stampa giapponese. Nacquero allora alcune delle sue serie più famose, come le Trentasei vedute del monte Fuji, le Mille immagini del mare, o le Vedute insolite di famosi ponti giapponesi, straordinarie per l’ambiguità fra spazio narrato e evocato.
HOKUSAI - LE TRENTASEI VEDUTE DEL MONTE  FUJI



E incredibili per la figura umana ostinatamente presente ma come riassorbita e dispersa nel ritmo più vasto della natura, per le forme di quella natura ridotte a sagome, eppur ancora pregne di vita, nelle quali tutto sembra poter essere una cosa e il suo contrario, in una dialettica infinita che allude all'eterno.
Si affacciano di frequente immagini di animali – l’anatra e la carpa, la tartaruga e il leone - in bilico fra un acuminato realismo e una straniante intenzione metamorfica, che poco più tardi sfocerà in una ironia divertita e grottesca.

HOKUSAI -
DONNA FANTASMA CHE ESCE DA UN POZZO
Come postfazione a quello che sarebbe stato il suo ultimo incompiuto lavoro e testamento spirituale, la raccolta delle Cento vedute del monte Fuji, scrisse : “Dall’età di sei anni ho la mania di copiare la forma delle cose e dai cinquant’anni pubblico spesso disegni, tra quel che ho raffigurato in questi settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A settantatre ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali ed uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancor più il senso recondito e a cento anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria”.
Il Maestro muore dopo una breve malattia il 10 maggio 1849 e il breve biglietto scritto sul letto di morte recita: “Anche se come un fantasma, me ne andrò per diletto per i prati estivi”.

venerdì 17 ottobre 2014

Brunelleschi, il primo architetto

MASACCIO
RITRATTO DI BRUNELLESCHI
Filippo Brunelleschi è stato il primo grande architetto in senso moderno. 
Una rivoluzione assoluta nel campo delle costruzioni e dell'urbanistica, che cambierà radicalmente il volto di intere città.
Con lui infatti l’architetto non è più il capomastro medioevale ma il creatore, in grado di risolvere col suo lavoro intellettuale in sede di progettazione, tutti i problemi della costruzione, dalle risoluzioni strutturali ai dettagli decorativi.
Un genio.
SACRIFICIO DI ISACCO
Fu davvero personalità fondamentale nel passare al primo compiuto manifestarsi degli ideali del Rinascimento.
La sua carriera inizia come apprendista orafo e scultore, nella sua Firenze, dove nacque nel 1377.
Nel 1401 partecipa al concorso per la decorazione della seconda porta del Battistero: la sua formella col Sacrificio di Isacco fu giudicata vincitrice ex aequo con quella di Lorenzo Ghiberti. 
Ma l'idea di dividere l’incarico con un altro lo fa rabbrividire, per cui conclude rapidamente la sua esperienza di scultore.
Ritornerà poi al suo primo amore con il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella.
L'occasione della sua vita arriva nel 1409 con il cantiere di Santa Maria del Fiore.
CUPOLA DI SANTA MARIA DEL FIORE
Un'occasione imperdibile per un innovatore del suo calibro.
Si voleva completare l’opera duecentesca di Arnolfo di Cambio, ma la cupola non poteva essere costruita con i mezzi tecnici a disposizione.
Doveva essere sorretta da grandi armature lignee, le céntine, ma non se ne potevano fare di così grandi: erano scomparse, a causa della peste, le maestranze capaci di simili lavori.
Come fare?
I problemi sembravano impossibili a risolversi ma lui ha un colpo di genio, un'intuizione che da allora cambierà il corso della storia dell'architettura.
LANTERNA SANTA MARIA DLE FIORE
Brunelleschi inventa una nuova tecnica che permette alla cupola di auto-sostenersi nel corso della costruzione.
Nel 1434 la struttura è conclusa con successo, due anni dopo è messa in opera la lanterna di coronamento e nel 1438 le quattro tribune negli intervalli del corpo sporgente dell’ottagono absidale.
La cupola ha una forma leggermente ogivale e non soltanto conclude un edificio di un’altra epoca: lo ri-definisce, lo adegua, ne trasforma il significato, con l’ampio corpo coordina e conclude gli spazi irradiati del coro, con il profilo ogivale equilibra in altezza lo spazio longitudinale della navata, con la convergenza delle nervature ne definisce prospetticamente la forma.
La cupola così non grava più sull’edificio ma si libra nell’aria, con la tensione elastica degli spicchi in muratura tesi tra le nervature.
CAPPELLA DEI PAZZI - SANTA CROCE
L’inimitabile purezza di linguaggio appare nelle opere che improntano di sé l’intera struttura urbana fiorentina - il portico dello Spedale degli Innocenti, la chiesa di San Lorenzo con la Sacrestia Vecchia, la cappella dei Pazzi in Santa Croce - con due temi strutturali: la pianta basilicale evoluta sui modelli paleo-cristiani e quella centrale di derivazione classica, mentre la sua tipica decorazione, in pietra serena su intonaco bianco, evidenzia l’intelaiatura prospettica.
Ma il suo genio non si ferma qui.
A lui si deve un’altra scoperta destinata a dominare nei secoli seguenti: la prospettiva.
MASACCIO - LA TRINITA'

Neppure i greci conoscevano le leggi matematiche per cui gli oggetti diminuiscono di grandezza man mano che si allontanano nello sfondo e nessun artista classico sarebbe riuscito a disegnare il filare di alberi che retrocede fino a svanire all’orizzonte.
Fu lui a risolvere tale problema e l’emozione che destò dovette essere enorme.
Si può solo immaginare lo stupore dei fiorentini quando, rimosso il velo alla Santissima Trinità del giovanissimo Masaccio, apparve l’affresco che pareva aver scavato un buco nel muro per mostrare al di là una nuova cappella costruita secondo il moderno stile di Brunelleschi.
Filippo morì nel 1446 e fu sepolto in Santa Maria del Fiore.
La sua tomba, rimasta sconosciuta per secoli, fu scoperta nel 1972.

    

mercoledì 15 ottobre 2014

Guttuso: impegno politico e Sicilia


Renato Guttuso - 1983
Cactus sul golfo di Palermo
La sua pittura è una forma di libertà, di impegno morale e politico, di toccante amore per la sua Sicilia, così fulgida di colori, di suoni e di bellezza luminosa ma anche di passione erotica e carnale.
Renato Guttuso vuole raccontare la vita con realismo e lo fa in maniera raffinata e intensa.
Fu davvero un grande e controverso maestro, tenace difensore dell’arte figurativa, tanto che, dotato di una vasta cultura e di una straordinaria abilità tecnica, rielabora criticamente l’arte europea, da Cézanne agli impressionisti, per approdare a Picasso: evidenti sono gli elementi che rivede da quel pilastro dell’arte del Novecento che fu Guernica, dipinta dall’artista spagnolo nel 1937.
E a lui certamente guarda tre anni dopo quando dipinge la Crocefissione, un quadro che fece scalpore e di cui si discusse molto, soprattutto per le trasgressioni all’iconografia tradizionale.
Renato Guttuso - 1941
Crocefissione
Roma, Galleria Nazionale d Arte Moderna
Un quadro che diventa il manifesto del realismo neo cubista.
Come Picasso in Guernica, così Guttuso nella scena più drammatica della vita di Cristo, ritrae le atrocità della guerra che aveva messo in ginocchio l’Italia e tutto il continente, le fa sue, le vuole gridare al mondo intero.
E quell’uomo sulla croce diventa, e in quel momento storico ancora di più, il simbolo universale delle sofferenze umane.
Sofferenze che sono di tutti, dalla nuda Maddalena e con le labbra troppo rosse che lo piange disperata ai due ladroni sulla croce, con i corpi straziati dal dolore che sembrano riflettersi nello sguardo allucinato del cavallo.
I colori vibranti, forti e taglienti come lame - i rossi e i neri e i bianchi - vivono in un’intensità espressiva che non si spegne neanche nel paese sullo sfondo, rassicurante e all’apparenza pieno di pace, perché è deserto, non c’è più nessuno.
Renato Guttuso
Ritratto di Marta Marzotto
Ma nella vita di Guttuso c'è spazio anche per l'amore e la passione: nell'immediato dopoguerra sposa Mimise, che ritrasse più volte con infinita dolcezza. Mimise morì nell'ottobre del 1986 e il pittore la seguì triste e malinconico l'anno dopo.
Celebre è la sua relazione vissuta dagli anni '60 fino al 1986, in concomitanza con la morte della moglie, con la regina dei salotti, Marta Marzotto. La relazione fu definita, senza mezzi termini, "al limite della pornografia", e Marta divenne anche la sua modella preferita oltre che la sua musa ispiratrice.
Poi i quadri politici, come L’occupazione delle terre incolte del 1949, con gli stessi colori accesi e la bandiera rossa che sventola in primo piano ne è un esempio: per Guttuso l’arte diventa davvero un mezzo per smuovere le coscienze di chi è sempre stato in silenzio, per far valere i diritti di chi non ne ha mai avuti.
Renato Guttuso - 1972
I funerali di Palmiro Togliatti
Ecco perché fonda, due anni prima, il Fronte Nuovo delle Arti, avanguardia artistica legata al partito comunista e dichiaratamente legata a temi di impegno sociale senza cadere però nella facile demagogia.
Un altro quadro dalla forte connotazione ideologica è I funerali di Palmiro Togliatti, del 1972, con un florilegio di bandiere rosse dove sono ritratti anche Marx, Engels, Trotsky, Stalin e Lenin.
Un quadro che è diventato l'icona del partito comunista.
Renato Guttuso
Donne di zolfatari


E non mancano quadri che rimandano al mondo del lavoro più umile, quello contadino e povero, come Donne di zolfatari, La stalla, l'Uscita per la pesca o Contadini che zappano.
In tutti è evidente la fatica e il sudore, la rabbia per la miseria che si vede nei volti urlanti delle donne della solfatara o in quelli scavati dagli uomini che tendono i muscoli per lo sforzo nell'usare le zappe.
Ma Guttuso e la Sicilia sono una cosa sola ed ecco nel 1974 la Vuccirìa: un enorme (tre metri per tre) fotogramma del mercato storico di Palermo, con i suoi odori forti di carne e di pesce, i suoi profumi di verdure e di aromi, i suoi colori e le sue urla in un vicolo strettissimo pieno di vita.
Renato Guttuso - La Vucciria - 1974 - Palermo, Palazzo Steri
Vuccirìa in siciliano vuol dire confusione, e la confusione è palpabile, si sente a pelle e ti confonde il cervello in quel florilegio di merci e di persone.
Confusione dei prodotti in vendita, dai gomitoli di salsicce alle frattaglie, dai pomodori ai pesci, fino al quarto di bue appeso a un gancio. Confusione dei colori: il bianco delle uova, il verde di cicoria e sedani, il rosso dei pomodori e delle arance, il grigio argento dei pesci e il rosa dei tranci di pesce spada, il vestito bianco della donna, il giallo del maglione dell’uomo.
E ancora il bianco della camicia dell’uomo dietro e di nuovo il nero della signora con il sacchetto della spesa.
Vita, persone, odori, sapori e colori di Sicilia, in un caos miscelato alla perfezione.
Ogni volta che guardi quel grande  quadrato  scopri qualche particolare nuovo che ti sorprende.
E per questo saperti regalare una sorpresa sempre nuova, ringrazi Guttuso. 
 
Il mio video su Renato Guttuso sul canale YouTube:

lunedì 13 ottobre 2014

Ilaria del Carretto: un'emozione senza tempo

Palpiti di eterno sul suo giovane viso, un velo di malinconia che si irradia sulla sua dolce bellezza, ma nessun dolore visibile, nessuna rabbia traspare verso la morte.
La tranquillità del tempo veglia su di lei.
Perché Ilaria del Carretto è viva, in quel marmo così morbido che vien voglia di accarezzarla, e sembra davvero che stia  dormendo serenamente un sonno che dura da oltre seicento anni.
E’ viva, riposa su un sarcofago marmoreo ornato nei fianchi da festoni di frutta e fiori sostenuti da putti, che però non contenne mai le sue spoglie.
Si appoggia stancamente su due morbidissimi cuscini, con i riccioli che incorniciano il suo ovale levigato, perfetto e luminoso.
Il suo abito si apre su un fascio di pieghe che arrivano fino ai piedi, fino quasi a coprire il cane, lui sì con l’espressione tristissima, che la veglia e la protegge, che a lei si appoggia, in una sorta di abbraccio che parla solo di vero amore.
Forse quell’amore che per il marito - Paolo Guinigi, signore di Lucca dal 1400 al 1430 -  era solo fittizio.
Sì, perché lui, ordinò a Jacopo della Quercia il sarcofago per la moglie, sposata il 3 febbraio del 1403 e morta l’8 dicembre del 1405 a soli venticinque anni di parto, come simbolo di eterno amore, ma poi si risposò altre due volte e il suo eterno amore evidentemente si dissolse velocemente.
In ogni caso, il primo capolavoro dello scultore senese è una felicissima sintesi fra la tradizione gotica francese e il classicismo rinascimentale.
Jacopo aveva dentro di sé una poetica delle emozioni che spalma delicatamente su tutta la figura di Ilaria, avvolgendola in un’aura di sogno e di sentimenti contrastanti.
Amore e morte, Eros e Thanatos avrebbero scritto i greci.
Una morte visibile nello scheletro trovato due anni fa nella cappella funeraria dei Guinigi nella cappella di santa Lucia a Lucca, perché Ilaria fu seppellita lì, non dentro quello straordinario sarcofago. 
L’università di Pisa afferma che si tratti proprio del corpo di Ilaria.
Ossa in cui si vede lo scempio dei secoli, di una tristezza infinita, e non si capisce il senso di averle disturbato il sonno eterno e di turbare la tranquillità che emana dal suo corpo e dal suo viso, così languidamente resi eterni dallo scalpello di Jacopo.
Francamente non interessa sapere dove sono davvero i suoi resti mortali.
Chiunque sia passato o passi per il duomo di Lucca, non può e non potrà scordarla mai.
Perché lei è l’immagine della bellezza immortale che vive dentro una scultura, di una vita spezzata per far nascere un’altra vita, di una giovinezza ‘che si fugge tuttavia’ , di un’emozione senza tempo.
 
Il video su Ilaria del Carretto è sul mio canale Youtube:

giovedì 9 ottobre 2014

Il mondo medievale illustrato

MAPPAMONDO DI FRA MAURO - 1450
Mappamondi, planisferi e carte geografiche evocano fascino e mistero e riportano alla mente leggende antiche, città sconosciute, mondi lontani, viaggi e scoperte, navigatori ed esploratori.
Nei tempi moderni tutto sembra semplice, le notizie su come oceani e continenti si spartiscano lo spazio del mondo si imparano fin dai primi banchi di scuola, ma un tempo non era così.
Le informazioni erano scarse, molte terre ancora inesplorate.
Eppure già Tolomeo, astronomo e geografo alessandrino vissuto nel II secolo dopo Cristo, descrisse le parti conosciute della terra con un sistema scientifico, utilizzando longitudine e latitudine per l’identificazione dei luoghi, tanto che la sua opera rimase alla base della geografia fino alla riforma copernicana.
Proprio Tolomeo è una delle fonti a cui fece riferimento Mauro, monaco camaldolese che intorno al 1450 compose uno straordinario planisfero, dipingendo su pergamena, poi incollata su legno, con pigmenti di vario genere, un cerchio arricchito da continenti, città, montagne, mari e fiumi e da tremila iscrizioni in lingua veneta.
LEONARDO BELLINI - PARADISO TERRESTRE
Il tutto inscritto in un quadrato di quasi due metri e mezzo per lato dove in un angolo Leonardo Bellini, nipote di Jacopo, dipinse il Paradiso Terrestre, mentre negli altri tre sono rappresentate note e diagrammi di cosmologia secondo le concezioni medioevali tolemaiche.
Strano destino quello che ruota intorno a questa splendida opera conservata a Venezia nella Biblioteca Marciana dal 1811, dopo che il monastero di San Michele dove viveva Fra Mauro fu dismesso per ordine di Napoleone per creare nell’isola il cimitero cittadino.
E’ una delle opere geografiche più famose al mondo, riprodotto in qualunque testo si occupi di cartografia, eppure solo Placido Zurla nel 1806 se ne occupò scrivendo un volume.
Ma perché è così importante?
EUROPA
Perché rappresenta la sintesi particolarmente ampia, articolata e complessa del sapere geografico del tempo.
Le fonti raccontano di anni di lavoro e per completare l’opera il monaco raccolse una quantità infinita di notizie, partendo da autori classici come Tolomeo e Plinio, per giungere ad autori a lui contemporanei o quasi come Marco Polo o Nicolò de’ Conti, viaggiatore veneziano che andò in Cina alla fine del ’300, oltre a fonti orali che Mauro definiva «persone degne di fede».
Per certe parti del mondo come l’Oceano Atlantico, le informazioni gli giunsero dai portoghesi, che nel 1415 iniziarono le prime sistematiche esplorazioni.
E ancora le carte che gli passarono i religiosi e missionari etiopici che avevano accesso a documenti rari.
INDIA
Notizie dunque di diversa provenienza, che consentirono a Mauro di dialogare virtualmente con gli antichi attraverso le iscrizioni, grazie alla sua mente aperta e libera da schemi pre-costituiti dettati dalla cosmologia scolastica di impostazione cristiana.
Un’attitudine da vero umanista, che mette le fonti su un piano paritetico.
Qualche curiosità: intanto la carta è capovolta rispetto al nostro vedere comune, il nord cioè in basso e il sud in alto.
Il motivo è semplice: dall’alto viene la luce, che nella simbologia cristiana è intesa come conoscenza e ispirazione divina.
E ancora la parte che descrive Venezia è consumata, quasi bucata, a causa di tutti coloro che puntando il dito hanno detto, quasi come nelle piante della stazione o della metropolitana, «noi siamo qui».
Interessante poi il Giappone, per la prima volta descritto in una carta occidentale o le Seychelles e le Maldive, perfettamente allineate coi loro isolotti e arcipelaghi.
Da vedere le descrizioni accuratissime delle regioni scandinave o del corso del Nilo, assolutamente originale e perfettamente rispondente all’idrografia africana.
Un capolavoro da gustare nei minimi particolari, un’immagine del mondo dall’impianto medioevale ma dai contenuti assolutamente moderni e sorprendenti.


mercoledì 8 ottobre 2014

Klimt inaspettato

 
CASE A UNTERACH SULL'ATTERSEE - 1916
Da lui non te lo aspetti.
Da lui ti aspetti donne sensuali e scandalosamente erotiche, sempre più forti, indipendenti e libere in un mondo troppo maschile.
Ti aspetti la luce spezzettata in mille colori o i bagliori d’oro e d’argento.
Ma la Natura, no, quella non te la aspetti proprio.
Un altro Klimt, quasi inaspettato, che dipinge paesaggi rigorosamente quadrati, come volesse dire che non vanno in nessuna direzione particolare e che sono chiusi in una forma perfetta, dove nessun lato prevarica l’altro.
Oppure, con un aura più pessimista, la sua visione quadrata della natura può portare a pensare che in quel non andare in nessuna direzione ci fosse la consapevolezza del non vedere alcuna via d’uscita, al pari di Van Gogh, alla soluzione del significato della vita o all’insopportabile pesantezza dell’essere.
CAMPO DI PAPAVERI - 1907
Paesaggi con una vegetazione lussureggiante che ispirano a prima vista pace e serenità, con nulla e nessuno che disturba quel momento interiore, nessun gesto, nessun movimento visibile e più che altro con nessuna figura umana.
Quella sì, rovinerebbe l’attimo perfetto.
La natura che si erge a dea, forse intesa come dea madre creatrice dell’intero universo, all’apparenza lontana anni luce dai suoi dipinti più famosi diventati icona dell’Art Nouveau.
Il bisogno di un sogno, forte più della realtà che ci stritola come un boa, come solo un pensiero onirico può essere.
Ed eccolo Klimt, negli ultimi anni della sua vita: pare di vederlo, quando era in vacanza sull’Attersee, che solitario usciva di casa, faceva schizzi en plein air, come gli impressionisti, e poi, quando tornava, completava quel che aveva disegnato in studio, magari aiutandosi con le fotografie, come tanti suoi colleghi dell’epoca.
ORTO CON POLLI - 1916
Ma era in un altro mondo rispetto al passato, direi in un’altra dimensione spazio/temporale: nei suoi dipinti pieni zeppi di simboli il paesaggio non aveva posto, non svolgeva nessun ruolo, neanche di contorno, perché gli sfondi di quei dipinti erano mosaici lavorati con colori, oro e argento che diventavano soggetto e non erano più solo mero ornamento.
Ora invece, una nuova linfa interiore, un bisogno di calma lontano dagli affanni tutti umani, fa sì che laghi, monti e paesi diventino i protagonisti.
Un bisogno di tranquillità che solo la Natura può regalare, come fa una mamma, senza volere nulla in cambio.
Una tranquillità tangibile nell’assenza di tempo, nell’assenza di spazio, nella non energia che emanano, nella fissità dell’immagine che pare un particolare ripreso con un tele-obbiettivo: una visione troppo lontana per essere vissuta realmente.
IL MELO II - 1916
Paesaggi raffinati ma, ça va sans dire, simbolici.
Non poteva essere altrimenti.
Gli alberi solitari, pacifici e sottili, metafora della solitudine cosmica e aristocratica dell’uomo, eppure così diversi dagli olivi o dai cipressi di Van Gogh, contorti e disperati, immersi in una natura impazzita di colori e di segni.
Un'altra visione della vita, anzi, forse della solitudine.
 

martedì 7 ottobre 2014

Quel giorno a Lepanto



ANDREA VICENTINO - BATTAGLIA DI LEPANTO
«La mayor jornada que vieron los siglos», la più grande giornata che videro i secoli: così Cervantes definì sinteticamente la battaglia di Lepanto e tramanderà quell’epica impresa nel suo Don Chisciotte.         
Il 7 ottobre 1571 trecento navi della Lega Santa - la coalizione costituita il 20 maggio 1571, sotto il dogado di Alvise Mocenigo, per volere del Papa Pio V fra la Spagna, Venezia e gli Stati Pontifici - affrontarono vittoriosamente le forze navali turche al largo di Lepanto.
Morirono circa 30 mila uomini, di cui 5 mila veneziani.
Da quella battaglia dipese il destino dell’Occidente: il Mediterraneo fu liberato dalla presenza dell’Islam e l’Europa evitò di cadere sotto il dominio degli Ottomani.
Con la Lega, Venezia cercherà di proteggere il suo impero coloniale, fonte massima delle sue ricchezze, cosciente di adempiere anche ad una missione di difesa della cristianità contro un nemico implacabile e feroce.
La miccia che fece scoppiare questo nuovo capitolo della storia della Serenissima fu la dichiarazione di guerra che la Turchia fece a Venezia agli inizi del 1570 per la contesa su Cipro, dal 1489 possesso di Venezia.
Il prologo di Lepanto fu la caduta di Famagosta nell’agosto 1571, che finì col supplizio inferto dai turchi al governatore di Cipro Marcantonio Bragadin, che finì scorticato vivo.
Il 5 ottobre un brigantino proveniente da Candia portò la notizia che l’isola era caduta in mano turca e la fine che avevano fatto Bragadin e i suoi uomini.
La notizia corse da una nave all’altra, suscitando in tutti i veneziani una furia selvaggia.
I Turchi avevano dimostrato di essere nemici di Dio: la loro crudele politica aveva risvegliato anche negli animi più pacifici la voglia di distruggerli.
Da Messina più di 200 galee si mossero verso sud; ogni cristiano, libero o galeotto, ricevette un rosario.
Dall’Arsenale i veneziani portarono un’arma inconsueta: sei galeazze che montavano ciascuna 40 o più cannoni pesanti. Questa nave era sgraziata, poco manovrabile, ma era un mostro dotato di una enorme potenza di fuoco.
Il 7 ottobre 1571 era domenica e quel giorno la messa per la flotta fu celebrata con particolare solennità. Poi, da galea a galea, corse un mormorio: gli Infedeli erano in vista!
La flotta cristiana aveva una formazione a croce, tale da favorire la superiorità di fuoco contro la lunga formazione a mezzaluna, simbolica anch’essa, dei turchi.
Il fianco sinistro era al comando di Agostino Barbarigo, quello opposto era occupato dalle navi con a capo il genovese Gianandrea Doria.
Davanti all’ala veneziana erano appostate le due galeazze comandate da Antonio ed Ambrogio Bragadin, cupamente in attesa di vendetta. Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II Re di Spagna, a bordo dell’ammiraglia Real, comandava le 64 galee al centro.

JACOPO TINTORETTO
SEBASTIANO VENIER - PARTICOLARE
A fianco c’era il comandante in capo veneziano, Sebastiano Venier, sull’ammiraglia pontificia l’aristocratico romano Marcantonio Colonna.
La flotta ottomana contava 274 navi da guerra: al centro stava il grande ammiraglio Alì Pascià, a bordo della Sultana; la sinistra era affidata a Uluds Alì, Occhi Alì; la destra sotto Mohammed Saulak, Maometto Scirocco.
Il primo sparo partì da Don Giovanni che puntò dritto verso Alì, quasi fosse una sfida personale.
La Real e la Sultana avanzavano implacabilmente l’una verso l’altra, e lo sperone della Sultana penetrò nella Real: i turchi si lanciarono sulla nave ma furono trattenuti da un ostacolo che non conoscevano: le reti anti-arrembaggio.
La battaglia si combatté sulla coperta della nave di Alì: 800 uomini si contrastarono e dopo aspri duelli, Alì fu colpito alla fronte da una pallottola di archibugio.
ALI' PASCIA'
Al posto del vessillo verde dell’Islam fu issata la bandiera pontificia e nella stiva della Sultana fu scoperto il tesoro di Alì: 150.000 zecchini d’oro!
Altre navi turche cercarono di oltrepassare la flotta cristiana alle due estremità per prenderla alle spalle.
Il Barbarigo resistette e, sebbene cadesse mortalmente ferito, la manovra turca venne respinta.
Il Doria si allargò troppo per non essere circondato, dando modo ai turchi di penetrare nelle linee cristiane, anche qui i turchi furono costretti a ritirarsi, ma il genovese non fece per nulla una bella figura.
Alle 4 del pomeriggio la battaglia era terminata: la vittoria cristiana fu grande e completa, anche se non fu sfruttata appieno e non recò vantaggi concreti ai membri della Lega per i dissensi tra Venezia e Spagna.
La Serenissima stipulò nel 1573 una pace separata coi turchi, ai quali rimase il possesso di Cipro.

Tuttavia Lepanto segnò un momento decisivo di arresto per l’espansione musulmana e l’inizio della ripresa cristiana.
Per 70 anni neppure una volta i turchi osarono attaccare la Repubblica e, scomparsa la paura, Venezia non sentì più il bisogno di alleati.