mercoledì 31 dicembre 2014

Ma la lussuria è davvero un vizio?

LUSSURIA - 1593
CESARE RIPA - ICONOLOGIA
«Lussuria è un ardente e sfrenato appetito della concupiscenza carnale senza osservanza di legge, di natura, né rispetto d’ordine o di sesso.
Si rappresenta quasi ignuda, perché è proprio della lussuria il dissipare e distruggere non solo i beni dell'animo, ma anche i beni di fortuna che sono danari, gioie, possessioni e giumenti»: così scriveva nel 1593 Cesare Ripa nella sua Iconologia riferendosi ad uno dei vizi più condannati in assoluto.
La lussuria come lusso della carne, un tempo privilegio di classe riservato ai potenti e negato al popolino, cui era anzi additata come vizio capitale.
Una passione ad uso sregolato del piacere dunque, e partendo da questa premessa sembra di capire che i ragionamenti debbano andare in un'unica direzione.
Mai fidarsi della prima impressione, però.
Ma si può prendere un'altra strada, cercando di sfatare un concetto di cui tutti eravamo certi.
Il Cristianesimo non è sessuofobico, potrebbe affermare più d'uno.
Oibò, sorpresa.
E nella mente di molti passano le immagini di papi e preti vari che si scagliano nella lotta all’eros come gladiatori nell’arena.
MARC CHAGALL - 1974
CANTICO DEI CANTICI
Tant’è.
Nel Cantico dei Cantici si racconta che il piacere sessuale serve a far capire quale può essere il piacere dell’anima quando incontra Dio.
Piacere dell’anima intensissimo, evidentemente.
Basta guardare l’estasi di Santa Teresa o di Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini per capirlo: due mistiche che scrissero brani di alto erotismo per descrivere l’incontro col divino.
Va da sé ipotizzare che il buon Bernini per fissare l’attimo fuggente si sia ispirato a «quel momento» che profuma più di eros che di spirituale...
Ma lussuria può voler dire tutto e il contrario di tutto.
Una poltrona in pelle passata a cera e poi col latte per renderla morbidissima, un cognac d’annata e una scatola di sigari cubani mantenuti ad umidità costante: anche questa è lussuria, secondo qualche aristocratico signore.
O ancora, l’uscire da un mare trasparente, farsi infilare l’accappatoio dal maggiordomo e bersi qualcosa di fresco e profumato, lì, sulla spiaggia deserta, mentre tutta l’Italia è schiacciata ad uso sardina tra ombrelloni e sdraio.
GARDONE RIVIERA - VITTORIALE
CAMERA DA LETTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO
Opinioni.
Ma lussuria è anche D’Annunzio che narra la magia da incantamento dell’alcova, con il suo erotismo raffinato che fa da contro-altare al torso nudo di Mussolini in mezzo ai campi di grano.
Sono Paolo e Francesca, all’Inferno dantesco è vero, ma con il più bel verso d’amore: La bocca mi baciò tutto tremante.

DANTE GABRIEL ROSSETTI - 1855
PAOLO E FRANCESCA
LONDRA,TATE GALLERY


Sarà anche negativa, ma mai è stata contemplata nel codice penale e, forse in un raptus di genialità, si può trovare il bandolo della matassa: la lussuria non è vizio ma è una forma di talento.             
Tempo fa ho sentito da quella straordinaria donna che è Pamela Villoresi, un accorato invito a seguire le proprie passioni: «Le persone che vivono solo murate nella testa sono sfortunate perché non sanno più annusare un fiore, godersi una bella mangiata o un vero momento di passione».
Allora è vero che si può vivere di pulsioni.
O forse si deve...
 
BUON ANNO E DIVERTITEVI!


lunedì 29 dicembre 2014

Il giovane surrealista Giacometti

 
ALBERTO GIACOMETTI
PAESAGGIO AD ACQUERELLO
Per giungere alla distruzione della scultura, riducendola a una sagoma filiforme a cui aderiscono solo pochi residui di bronzo, come sgocciolature di cera, Alberto Giacometti, nato nel 1901, fece un percorso che lo vide protagonista fin dalla tenerissima età.
Un tragitto che parte dal figurativo per approdare al surrealismo.
I primi anni, quelli che vanno dal 1911 al 1929, riservano molte sorprese.
Insomma, un Giacometti quasi sconosciuto.
ALBERTO GIACOMETTI
TESTA DEL FRATELLO DIEGO
Impressionisti sembrano infatti i primi acquerelli, dipinti quando Alberto aveva appena dieci anni, che trasudano dell’arte del padre Giovanni all’epoca famoso pittore, con varie immagini, dai paesaggi dell’elvetica Val Bregaglia dove nacque, ai ritratti di familiari e amici, a nature morte.
Dipinti che richiamano la gioia di vivere, l’intensa cromia dei sentimenti positivi, lontani anni luce dalle opere tarde dove il colore praticamente scompare.
Un passaggio comunque fondamentale, anche se lui stesso, nelle mostre che a lui saranno dedicate nel periodo d’oro del dopoguerra, tenderà a lasciare in disparte, forse anche per il suo essere così ipercritico verso sé stesso.
Ma è il Giacometti scultore agli esordi che stupisce.
La testa in bronzo del fratello Diego, plasmata in plastilina all’età di tredici anni e successivamente fusa nel metallo, riporta senza ombra di dubbio all’Académie, che frequentò a Parigi dal 1922 al 1927.
Sono quelli però gli anni della formazione.
ALBERTO GIACOMETTI - APOLLO
Il giovane Alberto passa intere giornate al Louvre, si  incanta davanti alle sculture cicladiche e africane, e se è uno tra gli ultimi a studiare quelle del continente nero, sarà uno dei primi ad interessarsi della scultura oceanica e messicana che lasceranno tracce indelebili.
Il Torso maschile del 1925 è una figura geometrica, post cubista, così come il Piccolo uomo accovacciato rimanda alle lastre piatte messicane, con la materia già abbozzata in quel «non finito» che sarà la sua firma virtuale, il suo segno specifico e irripetibile.
ALBERTO GIACOMETTI
COPPIA
E’ il pensiero del rapporto uomo/donna ad intrigarlo, che più avanti cederà il passo all’idea della morte.
Ecco allora la Coppia vista con uno sguardo africano, con l’occhio maschile reso uguale al sesso femminile così come il fallo dell’uomo diventa l’occhio della donna.
Ancora di ispirazione africana la Donna cucchiaio, dove ne enfatizza il ventre e il grande seno.
Era, in nuce, il concetto fondante del suo essere artista: il voler rappresentare quel che vedeva.
E nelle sculture degli esordi la sua visione è più globale, anche se la parte posteriore delle teste non è mai finita perché, diceva, non possiamo vedere il viso e contemporaneamente anche la nuca.
ALBERTO GIACOMETTI - DONNA SDRAIATA CHE SOGNA


 In quella visione entrano anche i vuoti, come nella Donna sdraiata che sogna, parte integrante e fondamentale, così come le linee ondulate e le barre che compongono altre figure.
E’ il 1929, sono le sue prime opere surrealiste, rivoluzionarie dal punto di vista formale, che gli doneranno i primi momenti di gloria.
Gloria che arriva poco dopo, contraendo la figura, riducendola a poco più di un filo che scomparirebbe, se non la trattenesse alla soglia del nulla, un ultimo, precario, residuo di materia.

mercoledì 24 dicembre 2014

L'otium è una virtù tutta da scoprire

BERTHE MORISOT - DONNA SDRAIATA - 1879
Un godurioso e lento modus vivendi, questo per i latini era l’otium, condizione tutta umana dalla connotazione assolutamente positiva, lontana anni luce da quell’ozio che entrerà a far parte della schiera dei vizi peggiori.
L’ozio è il padre di tutti i vizi, frase mitica sibilata fra i denti da ogni genitore ad ogni figlio per lo più adolescente mollemente accasciato sul divano a guardare inebetito la televisione, magari con le cuffiette in testa per ascoltare anche la musica.
Eppure l’ozio ha avuto la sua rivincita, la parola è stata rivalutata in un neanche tanto lungo processo filologico che ha portato al rimescolamento delle carte, dandone ormai una valenza positiva, tanto che spuntano libelli e manuali per l’uso dell’ozio quale alleato a renderci migliore la vita.
E lo si potrebbe fare partendo dalla concezione storica e non solo latina dell’ozio, specialmente visto come droit à la dimanche, frase simbolo della rivendicazione operaia di fine ’800.
La liberazione dall’obbligo quotidiano dunque, quel trovare un angolo tutto per sé, ritagliarsi uno spazio in cui il cervello possa rielaborare situazioni e ricordi.
L’ex vizio è una bellissima cosa e che si potrebbe ritrarre con un vestito pieno di veli e fluttuante, libero e danzante.
Già nel 1935 Bertrand Russell  L'elogio dell'ozio, testo fondamentale, di cui consiglio un'attenta lettura.
Ne cito un pezzettino: "In un mondo invece dove nessuno sia costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di curiosità scientifica potrebbe indulgervi. ogni pittore potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi l’attenzione con romanzacci sensazionali per procurarsi l’indipendenza necessaria alla produzione di opere geniali.
Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci.
E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui".
ISAAC NEWTON
LITOGRAFIA XIX SECOLO
Bisogna però anche ragionare sulla differenziazione tra ricchi e poveri. 
Già, perché per oziare al meglio servono tanti soldi, anche se è doveroso anche aggiungere che imparare ad oziare è molto difficile, molto più facile è semplicemente il perder tempo, cosa questa, che tutti possono fare.
«Dal vuoto nasce meglio la capacità di vivere» disse il buon Newton, che nulla facendo sotto un albero, scoprì il senso della forza di gravità per la botta presa dalla mela che gli cadde sulla testa.
Beato l’otium creativo allora, quel dolce e adorabile far niente colmo di ricchezza interiore e avulso dagli stress quotidiani, in quel cercare il Paradiso in terra, tralasciando che a fianco c’è anche l’Inferno.
 
BUON  NATALE E NON FATE NIENTE, SE POTETE!

domenica 21 dicembre 2014

L'altrove di Venezia

ITALICO BRASS  1910
IL PONTE DEI PUGNI DA RIO SAN BARNABA
L’ultimo collezionista di Venezia, con pigli di dannunzianesimo, fu Italico Brass, che concluse una fase variegata e controversa nella storia culturale della città.
Prima di lui però furono innumerevoli coloro che amavano contornarsi di sculture, dipinti, mobili, medaglie e oggetti da wunderkammer.
Un patrimonio immenso di arte e storia che in parte è confluito nei musei cittadini e in buona parte è volato via spalmandosi in giro per il mondo come bottino di guerra, leggi Napoleone, o venduto a re, principi, nobili o nouveaux riches di altre città o nazioni.
Venezia e il suo altrove, dunque.
PAOLO VERONESE - LE NOZZE DI CANA - 1563
PARIGI, LOUVRE, ACQUISITO NEL 1797 DA NAPOLEONE
Della diaspora di capolavori più o meno celebri si sono sempre occupati vari studiosi, vagabondando su temi e testi di sofisticata piluccatura e di alta curiosità.
Un altrove che porta alle curiosità di dieci secoli di rapporti tra Venezia e Costantinopoli spesso fecondi ma anche difficili e contrastati: Venezia scopre nel Turco uno dei propri altrove e appunto altrove esporta una parte di sé stessa, non solo le merci ma anche le guerre, le speranze, i costumi e le costumanze.
TIZIANO - APOLLO E MARSIA - 1576
KROMERIZ, MUSEO NAZIONALE
 
Un’altalena mercantile e bellica in luoghi altri, momenti di fulgore e tragedie, come lo scuoiamento di Marcantonio Bragadin a Famagosta nel 1571, una delle onte da riscattare nella battaglia di Lepanto, che avvicina all'Apollo e Marsia, che subì lo stesso poco simpatico trattamento, di Tiziano, anche lui altrove, in quel di Kromeriz nella Repubblica Ceca.
O ancora la IV Crociata del 1204, dei saccheggi e delle devastazioni dove la pietas cristiana in quei giorni era anche lei altrove, se è stato scritto che «el sangue se coreva per la tera come el fose stà piovesto».
PIETRO LONGHI - IL CAFFE' - 1760

Ma le relazioni tra i due non si interrompono, anzi continuano, al di là dei morti e della diplomazia.
Seguiranno secoli di commerci, di ricchezza, di storie di uomini e di quel fare arte passato dagli infedeli ai serenissimi e viceversa, fino a due grandi conquiste.
Venezia a Costantinopoli scopre il caffè e il primo a nominare la vitale bevanda è Gian Francesco Morosini, bailo (governatore in Turchia) nel 1585.
Da quel giorno felice nascerà una tradizione da vendersi a caro prezzo in Piazza San Marco e da esportare con Goldoni che lo rende protagonista di una delle sue commedie.
I Turchi invece conquistano un inno scritto da Giuseppe Donizetti, fratello maggiore di Gaetano, maestro di banda nell’esercito sabaudo che nel 1818 arriva a Costantinopoli perché il gran sultano Mahmud II vuole riorganizzare la vita musicale di corte.

GIAMBATTISTA TIEPOLO - IL TRIONFO DI MARIO - 1729
NEW YORK, METROPOLITAN MUSEUM OF ART
I due si piacciono: Donizetti diventa pascià e il suo inno durerà fino al 1921.
Ma l’altrove di Venezia è dappertutto, comprese New York, Vienna e San Pietroburgo, ossia le fortunate città che posseggono le dieci  importanti tele di soggetto storico di Giambattista Tiepolo nati per Ca’ Dolfin, passati nel 1854 in eredità ai Querini Stampalia, e quindi emigrati.
Una storia intricata, fatta di eredità, di dissesti finanziari, di vendite per pagare le altissime tasse di successione, di passaggi di mano in mano, fino addirittura a rettificare i profili irregolari di tali capolavori per venderli più facilmente facendoli diventare dei meno impegnativi rettangoli.
E così le dieci tele passano nel 1871 per 16.520 lire a Michelangelo Guggenheim, antiquario e commerciante, quello che gli fa il lifting, poi al barone Eugenio Miller von Aichoz di Vienna per 46.000 franchi che cerca di venderli a Parigi in due gruppi, uno va al russo Polovtzeff, che lo dona al Museo di San Pietroburgo, l’altro rimane invenduto.
Il barone muore e tutto il suo patrimonio lo compra Camillo Castiglioni, intraprendente conte italiano, che dopo qualche dissesto ne vende due al Kunsthistoriches di Vienna, i più grandi li spedisce in pegno a Zurigo a tale Stefan Mendl, che ne diventa proprietario nel 1935.
Poi più nulla fino al 1965, quando l’esecutore testamentario di Mendl li propone al Metropolitan Museum di New York che li compera.
E un altro pezzo di Venezia è, appunto, altrove.

giovedì 18 dicembre 2014

Artemisia Gentileschi: lavoro, gloria e stupro

ARTEMISIA GENTILESCHI - 1615
AUTORITRATTO COME SUONATRICE DI LIUTO
Quel che rendeva Artemisia Gentileschi diversa dalle altre donne era il lavoro.
Ed è questo, più dello stupro subito, l’elemento decisivo in tutta la sua vita.
Lei, bella e formosa con i capelli disordinati, figlia di Orazio, anch’esso pittore, nata a Roma nel 1593, tenuta quasi segregata in una stanza della casa-studio di via della Croce a Roma, dove dipingeva fin da piccola, lontana da occhi indiscreti e da uomini che potessero vederla, aveva di fronte a sé un futuro che pareva segnato dalla volontà del padre di rinchiuderla in un convento.
Quando, nei primi di maggio del 1611, Agostino Tassi, pittore di prospettive, la aggredì, Artemisia stava dipingendo.
Le strappò di mano pennelli e tavolozza e li gettò a terra.
Il suo violentatore sembrava infuriato per il fatto di vederla lavorare quasi quanto era infiammato dal desiderio carnale.
ARTEMISIA GENTILESCHI - 1622
GIOELE E SAMIRA -  
Nel suo tentativo - riuscito purtroppo come lei racconterà crudemente nel primo processo di stupro della storia, per cui Tassi venne condannato a cinque anni di esilio da Roma - di soggiogarla, impedirle di lavorare fu il primo passo.
Ma Artemisia, donna forte, intelligente e caparbia, da molti storici considerata una femminista ante littteram, non si limitò a riuscire nel suo difficile lavoro, cosa assolutamente inusuale per l’epoca, per di più dopo la violenza subita e i progetti malsani del padre.
Diventò famosa.
Nel 1614 fu la prima donna ad essere ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze e poté godere del favore e della protezione dei Medici, in particolare della granduchessa Cristina.
Nel decennio successivo entrò a far parte dell’Accademia romana dei Desiosi, con la protezione di casa Savoia.
Nel suo ritratto che Jerome David incise nel 1625, è chiamata “prodigio della pittura, più facile da invidiare che da imitare".
Aveva richieste di quadri da parte del Vicerè di Spagna, dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, da Filippo IV  e dal re Carlo I d’Inghilterra.
Ce l’aveva fatta dunque.
ARTEMISIA GENTILESCHI - 1622
SUSANNA E I VECCHIONI
Nonostante la pittura fosse a quel tempo cosa esclusiva da uomini, nonostante quegli stessi uomini l’avessero denigrata e offesa al pari di una puttana, nonostante un uomo le avesse così vigliaccamente fatto perdere la verginità.
E la sua pittura, che risente in qualche modo dei tormenti e dei colori di Caravaggio, ha una forza che quella di altri colleghi maschi neanche si sognano, con asprezze realistiche e guizzi di drammaticità a loro sconosciuti.
Il nudo femminile è il suo marchio di fabbrica: inventa quasi una luce filtrata e un colore delicato, come i toni di porcellana della pelle,  per realizzare una figura idealizzata.
Quando dipinge Susanna e i vecchioni, nelle fattezze di uno dei due sembra abbia ritratto il Tassi, il suo violentatore, che era basso, tarchiato e con i capelli e la barba nera.
ARTEMISIA GENTILESCHI - 1623/1625
LUCREZIA
Ma lei è bella, sensuale e  allo stesso tempo pura, come il colore della sua pelle quasi candida.  
E’ in Lucrezia - la virtuosa moglie di Tarquinio che si tolse la vita dopo aver subito un’aggressione sessuale da parte di un soldato - che Artemisia getta tutto il suo odio per tale azione subita.
Ne evoca la drammaticità dell’azione, in un’immagine però assai erotica: congela l’attimo nell’immobilità, in quella pausa impercettibile che separa la vita  e la morte, simboleggiati l’una dal seno che nutre e l’altra dalla lama tagliente.
ARTEMISIA GENTILESCHI - 1620
GIUDITTA CHE UCCIDE OLOFERNE
FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI
E in Giuditta che uccide Oloferne la violenza grafica e il sangue che cola e zampilla ne fa una delle più violente rappresentazioni di questa storia biblica.
Può sì essere stata ispirata a dipingere un martirio particolarmente raccapricciante dall’enfasi religiosa di quel periodo, ma è difficile non associare questa immagine alla sua drammatica esperienza personale, con tutto il rancore che si portava appresso.
E’ questo il quadro simbolo  di Artemisia, che prediligeva come soggetti le eroine vigorose, e proprio questo ha voluto firmare in primo piano, sulla lama della spada, quasi a voler fugare ogni dubbio, per ribadire ancora una volta che anche se era donna sì, ce l’aveva fatta, anche se a un prezzo altissimo.
Dopo avere tanto viaggiato, a Firenze, di nuovo a Roma, a Venezia e in Inghilterra, Artemisia giunge infine a Napoli, dove muore nel 1653, sola e abbandonata da tutti, nonostante lo strabiliante successo riscosso in gioventù.

venerdì 12 dicembre 2014

Paolo Veronese processato dall'Inquisizione


PAOLO VERONESE
AUTORITRATTO GIOVANILE - 1560
MASER (TV) - VILLA BARBARO
Bisogna imparare a guardare.
Molto spesso, e comunque più di quanto non si creda, l’immagine che vediamo ne rappresenta un’altra, di solito con un significato completamente diverso.
E’ il 1571 e a Paolo Veronese viene affidata dai frati domenicani del veneziano convento di San Giovanni e Paolo la commissione per una Ultima cena, dipinto grandioso, alto quasi 13 metri e largo più di 5, da mettere nel refettorio,  in sostituzione del dipinto di ugual soggetto di Tiziano, distrutto da un'incendio, ora alle  Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Veronese era uomo di intelligenza fortissima, un vero genio, e la sua arte era di una forza totalmente creativa e scenografica, resa con sbalorditiva rifinitezza.
Il 20 aprile 1573 Paolo completa l’opera, pagata di tasca sua da padre Andrea Buono, che dalla sua eredità familiare prende i 400 ducati  d'oro necessari
Il giorno dell'Ascensione, quando il refettorio spalanca i suoi battenti in modo che tutti possano ammirare il capolavoro, cominciano i guai.
E’ una storia affascinante e intricata quanto un giallo, con tanto di processo e condanna.
Il Tribunale dell’Inquisizione stava con gli occhi aperti, acutamente consapevole del valore divulgativo che avevano, specie nei confronti della massa degli analfabeti, le rappresentazioni iconografiche dei misteri della Fede: un valore paragonabile a quello dei mass media del giorno d'oggi.
Era cioè necessario che tali rappresentazioni fossero rigorose e seguissero le indicazioni iconografiche date dal Concilio di Trento (1545/1563), che metteva anche in guardia contro le pitture sconvenienti ai luoghi sacri.  
Va bene che nel dipinto di Veronese non c'erano nudi come nel Giudizio Universale di Michelangelo, ma il nostro aveva usato colori e pennelli con una disinvoltura che non piacque assolutamente. 
Paolo finisce perciò sotto processo, i cui atti ci sono pervenuti per intero.

PAOLO VERONESE - CONVITO A CASA DI LEVI  - 1571 
VENEZIA, GALLERIE DELL'ACCADEMIA
Gli si chiede perché nella cena del Giovedì Santo avesse introdotto un cane, un nano buffone con un pappagallo in mano, un servitore che perde sangue dal naso, alcuni alabardieri tedeschi e altre figure profane che così tanto facevano discutere la città, peraltro per nulla bigotta, anzi.
Paolo si difende, ma poi capisce di trovarsi su di un terreno pericoloso e fa una precipitosa marcia indietro.
"Signore Illustrissimo, non ho considerato tante cose, non immaginando di commettere un'irregolarità, tanto più che quelle figure buffonesche sono collocate fuori del luogo dov'è Nostro signore".
Paolo viene comunque condannato a correggere il quadro entro tre mesi e a sue spese.
Sostituire quindi lanzichenecchi e buffoni con Maddalene penitenti o apostoli adoranti?
Neanche per sogno.
Il nostro se la cava con un escamotage: cambia il titolo al dipinto, facendolo diventare un Convito a casa di Levi, a proposito del quale il Vangelo dice che "molti pubblicani e peccatori erano a tavola insieme a Gesù e agli apostoli".
La storia non finisce, anzi forse è solo all'inizio, e come in un romanzo giallo arriva puntualmente il colpo di scena.
Il quadro mente, così come gli atti processuali confermano che Veronese mentì davanti al Tribunale.
Perché?
PAOLO VERONESE - ULTIMA CENA - 1585 - MILANO, PINACOTECA DI BRERA
 

Nell'Ultima cena, e questo è noto a tutti e non solo agli scaramantici, a tavola erano seduti in tredici e non in quindici come li dipinse il buon Paolo.
Inoltre Gesù veniva sempre raffigurato con i suoi apostoli - e le indicazioni del sui particolari iconografici erano ben più che intransigenti e feroci - in ambienti raccolti e da soli e non con una quarantina di personaggi intorno, di cui alcuni davvero stravaganti.
Recenti studi hanno invece dato un'altra versione della storia, ritrovando un'iconografia legata a un passo del Vangelo di Luca (11, 37/54) che racconta della Cena a casa del Fariseo, perfetto per dipingere sotto mentite spoglie i “cattivi prelati”, ossia coloro che sia da Roma sia da Venezia avevano intimato ai dotti ma assai liberi frati domenicani di seguire la regola rigidamente.
Piuttosto che passare da conventuali ad osservanti, ci faremo luterani” sembra avessero detto i frati di San Giovanni e Paolo.
PAOLO VERONESE - CONVITO A CASA DI LEVI -
PARTICOLARE CON IL NANO E L'IMMONDO
E i “cattivi prelati”, secondo questi studi, vengono ritratti come il nano deforme con il  pappagallo e l’immondo con il fazzoletto bagnato di sangue sulla scala di sinistra.
Un’immagine politica quindi, dal significato criptico, da far ritenere che il processo a lui intentato per eresia fosse in realtà una copertura per insabbiare il dibattito aspro e velenoso tra i frati veneziani e l’autorità ecclesiastica.
E non poche voci invocano la riapertura di un processo che, a distanza di quasi cinque secoli,  potrebbe riservare ancora molte sorprese.        

mercoledì 10 dicembre 2014

Andy Warhol, la banalità di un mito

ANDY WARHOL
SIX SELF PORTRAITS - 1986
Andy Warhol, il guru della Pop Art, nato il 6 agosto del 1928 da due immigrati slovacchi, non mi è mai piaciuto.
In ogni caso “vale”, permettetemi le virgolette, milioni di dollari.
Dopo gli anni Cinquanta, in cui lavorò come grafico pubblicitario, intorno al 1960 inizia a riprodurre la realtà americana in maniera seriale e ripetitiva: dai personaggi dei fumetti alle zuppe Campbell’ in scatole, dai dollari ai volti delle icone del suo tempo come Marilyn Monroe o Elvis Presley ripresi dalle loro fotografie più famose.
ANDY WARHOL - CAMPBELL'S
I critici dell’arte contemporanea (dotati di molta fantasia ma cosa altra rispetto agli storici dell’arte) dissero che Warhol prendeva le distanze da individualismi e interiorizzazioni e dall’idea romantica dell’artista demiurgo.
Tant’è.
ANDY WARHOL - COCA COLA
Inizia a serigrafare su tela immagini preesistenti, per lo più fotografie estrapolate dai mass-media.
Ritraeva ciò che si vede ogni giorno e, soprattutto, quello che diventava oggetto di devozione collettiva,  perché per lui l’arte era da consumarsi come qualsiasi prodotto, che fosse una bottiglietta di Coca Cola, una salsa di pomodoro o un fustino di detersivo.
La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina. Tutto quello che faccio lo faccio come una macchina, ed è quello che voglio fare. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui lavoro su una serigrafia: penso che chiunque dovrebbe essere in grado di dipingere ogni mio quadro al posto mio. Non sono mai stato capace di riprodurre un’immagine in modo chiaro e semplice e di farla identica alla precedente”.
E ha ben due schemi compositivi per realizzare i suoi ‘capolavori’: con il primo, isola e dilata l’immagine, stampandola al centro della tela; con il secondo, ripete serialmente il soggetto, allineato sul dipinto in sequenze ordinate e sovrapposte.
ANDY WARHOL - BLUE MARILYN - 1962
Esempio del primo schema: Blue Marilyn con l’immagine tratta dal poster del film Niagara.
Il dolce viso della sfortunata attrice si presenta frontale, ingrandito e isolato su un fondo azzurro in rigide campiture di colore: il rosa della pelle, il celeste degli occhi, il biondo oro dei capelli, il rosso della bocca.
Warhol non colorava solo gigantografie di personaggi famosi.
Si è anche buttato sulla pittura.
Ma forse non tutti sanno che dipingeva in un modo che definire strano è un eufemismo.
Preparava una tela, sempre di grandi dimensioni, con uno strato di vernice fresca a base di rame, poi ci urinava sopra, invitando amici e collaboratori a fare lo stesso.
La vernice a quel punto a contatto con l’urina si ossidava, creando schizzi di verde e arancione.
ANDY WARHOL - OXIDATION PAINTING - 1978
E ‘quadri’ così  - chiamati Oxidation  painting - valgono due milioni di dollari, anche se non c’è ricerca, non c’è forma, non ci sono pulsioni dell’anima, non c’è neanche astrattismo almeno nel significato più alto del termine ,non ci sono emozioni e  non c’è estetica.
Per me la storia dell'arte è una cosa seria, che prima di tutto deve essere fonte di gioia e bellezza, che ha le sue ragioni storiche e culturali.
E' mescolanza di cuore  e intelletto, di sentimento e tecnica, di novità e tradizione, di passione e genialità
Warhol invece andava fiero del suo rifiutare in toto la storia dell’arte, con tutti i relativi significati e implicazioni.
Andy Warhol muore il 22 febbraio 1987 per i postumi di un intervento alla cistifellea.

venerdì 5 dicembre 2014

Raffaello e il suo unico grande amore

JEAN-AUGUSTE DOMINIQUE INGRES
RAFFAELLO E LA FORNARINA - 1813
Raffaello quando si innamorò era al culmine della sua fama, aveva il gusto del lusso e della raffinatezza e vestiva abiti splendidi di sete e velluti che mettevano in risalto la sua bellezza un po’ languida.
E Michelangelo, uomo serio, tormentato e tutto d’un pezzo, lo guardava con aperta avversione…
Il  giovane pittore di Urbino, dove nacque nel 1483, aveva ormai imparato ogni segreto della pittura, sapeva maneggiare pennelli e colori con una tecnica fantastica, sì che riusciva a rendere il bello in ogni cosa che dipingeva.
RAFFAELLO SANZIO - LA VELATA - 1516
FIRENZE, PALAZZO PITTI
La bellezza fu una condizione necessaria per l’arte di Raffaello, perché egli desiderò di evadere dai mali del tempo” scriveva lo storico Lionello Venturi nel 1947.
Raffaello cercò la bellezza anche nella sua vita privata, che poi, inevitabilmente, si fuse con quella artistica.
Aveva una modella, una popolana, Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, detta perciò la Fornarina.
Margherita era una ragazza bruna, affascinante, dal temperamento vivace, dalle forme opulente, con un viso perfetto illuminato da due occhi immensi.
Si incontrarono per caso, mentre lei si bagnava i piedi nel Tevere, e fu subito amore.
RAFFAELLO SANZIO 
 MADONNA DELLA SEGGIOLA
1514 - FIRENZE, PALAZZO PITTI
Lui viveva totalmente soggiogato da lei, non si stancava di ritrarla ed era così voglioso delle sue carezze che a volte, mentre lavorava era capace di abbandonare tutto per correre a trovarla.
Una passione violenta, fino alla nevrosi.
Tanto che, racconta il Vasari, nel 1514 pretende che gliela portino nella villa di Agostino Chigi alla Lungara dove sta dipingendo, altrimenti butterà all’aria tavolozza e pennelli, lasciando a metà l’affresco della Galatea, per il quale il banchiere senese gli ha imposto come modella la cortigiana Imperia.
E i matrimoni “bene” che i parenti e i suoi protettori gli sottoponevano, venivano regolarmente declinati con una scusa, perché, diceva lui, “doveva innanzitutto dedicarsi all’arte”.
Aveva anche una pseudo fidanzata, certa Maria, nipote del cardinal Bernardo Dovizi, brava figliola, con dote proporzionata alla fama di lui, ma il giovanotto rimandava indefinitamente le nozze a causa del suo amore struggente e tempestoso con la figlia del fornaio.
La fanciulla era davvero bellissima, lo si vede dai ritratti che il suo amante pittore le fece.
Quello più famoso è a Roma, nella Galleria di Palazzo Barberini
Lo realizzò intorno al 1518/1519 e alla sua morte era ancora lì, nel suo studio.
RAFFAELLO SANZIO
LA FORNARINA - 1518/1519
ROMA, GALLERIA DI PALAZZO BARBERINI
Lo dipinse di getto, senza disegno preparatorio.
Lei, sullo sfondo di un cespuglio di mirto, la pianta dedicata a Venere, è misteriosa e incantevole, dalla bellezza idealizzata e sublimata, assoluta ed enigmatica, con lo sguardo penetrante, perfetta, discreta quasi, ma che sa farsi puro erotismo nella sua discinta seminudità.
La sua pelle è chiara, quasi lattea, che vien voglia di accarezzare da quanto appare morbida, le sue mani sono appoggiate al seno e al ventre in una posa più che simbolica, il turbante di seta a righe verdi e dorate le copre in parte i capelli, il bracciale sul braccio con la firma di Raffaello, immersa in una luce che la fa schizzare fuori dallo sfondo scuro.
E’ ancora e sempre lei nella Velata di Palazzo Pitti a Firenze, con la sua grazia quasi sdegnosa declinata nei toni del bianco, del bruno e dell'oro, nella Madonna della Seggiola, nella Madonna di Foligno e della Santa Cecilia della Pinacoteca di Bologna.
E’ il 6 aprile del1520.

ROMA, PANTHEON
TOMBA DI RAFFAELLO
 
A 37 anni - alla stessa età di Parmigianino, Van Gogh e Toulouse-Lautrec - Raffaello muore, non perché sfinito dalle prodezze amatorie come vuole la leggenda, ma di pleurite.
Riesce a fare testamento: lasciò alla sua bella una somma tale da farla vivere decorosamente.
La poverina fu allontanata da casa durante l’agonia di lui, ma al momento del funerale, riapparve tra la folla e si gettò disperata e piangente sulla bara.
E per il dolore si ritirò a vita nel convento delle suore di santa Apollonia.
Ma è ancora lei e sempre lei nella Madonna del Sasso del Lorenzetto, voluta dallo stesso Raffaello a vegliare sulla sua tomba al Pantheon.
E il loro amore continua, speriamo, in eterno.

martedì 2 dicembre 2014

Breviario Grimani: il must dell'arte libraria


BREVIARIO GRIMANI

BREVIARIO GRIMANI
UNA PAGINA MINIATA
Sembra a volte che anche gli abbiano un’anima: i casi sono rarissimi ma se capita di imbattersi in uno di questi fortunati, allora l’emozione è davvero sublime. Il Breviario Grimani è in questa raffinata élite e lo sa benissimo, conscio com’è che il suo colto proprietario, il cardinal Domenico, aveva scritto nel suo testamento di mostrarlo solo a personaggi di riguardo e in occasioni particolari: se ambasciatori o principi volevano ammirarlo ma erano degli zotici ignoranti, avrebbero ricevuto comunque un grazioso ma inesorabile diniego.
D’altronde lui, dall’alto del suo mezzo millennio di vita, sa di essere perfetto in ogni minimo particolare, sa di avere 835 carte, ovvero 1670 pagine, 120 miniature a tutta pagina, una quantità impressionante di decori e capilettera impreziositi dall’uso sapiente dell’oro, una scrittura chiara ed elegante, una copertina in velluto cremisi con bronzi dorati e la medaglia con il profilo del suo mecenate, con una varietà dei temi e di soggetti inimmaginabile.
E sa di essere, perciò, un capolavoro assoluto.
Un capolavoro famoso nel mondo eppure quasi sconosciuto.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI FEBBRAIO
Un oggetto cult comprato dal cardinal Domenico nel 1520 per l’astronomica somma di 500 ducati d’oro, la stessa necessaria per armare una galea carica di merci e marinai pronta per salpare per l’Oriente.
Il patrizio si portò a casa un manoscritto nato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, un vero capolavoro, per poi donarlo alla Serenissima Repubblica di Venezia che lo custodì nel Tesoro di san Marco fino a quando nell’Ottocento passò alla Biblioteca Marciana.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI MAGGIO
Considerato a ragione un monumento dell’arte della miniatura fiamminga del Rinascimento, il breviario, di cui non si conosce l’esatta committenza originaria, offre una panoramica dell’iconografia e della capacità analitica dei seguaci di maestri del calibro di Van der Goes, Gerard David, Metsys e Jan Gossaert.
La parte più conosciuta del Breviario è il calendario iniziale: nelle scene a piena pagina collocate di fronte alle pagine del calendario di ciascun mese incorniciate con piccole scene di vita, esplode una sequenza di quadri sulla vita contemporanea di corte, della borghesia e del mondo contadino, come voleva la nuova stratificazione della società.

BREVIARIO GRIMANI
MESE DI AGOSTO
Furono soprattutto quelle scene (la magia della neve a gennaio, la tavola del banchetto del Signore, la scena di caccia, la luce notturna) a destare la meraviglia degli ambasciatori o dei reali in visita che poterono accedere al Tesoro di san Marco.
Sa di essere bello, di quella bellezza che Grimani considerava, da uomo di Chiesa, come l’ombra di Dio sulla terra, sa di essere la rappresentazione sublime della soluzione data dagli artisti delle Fiandre al problema della rappresentazione del visibile.
Il Breviario sa di essere stato una pietra miliare in quella straordinaria liason tra l'arte fiamminga e quella veneta che fece nascere capolavori a quattro mani, frutto di una contaminatio intellettuale senza precedenti.

Lui non è consultabile, e per ovvie ragioni di tutela vive nel suo  rifugio sicuro e solitario.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI MARZO

Ne esistono copie in fac-simile, anche straordinariamente perfette nonché costosissime, altre parziali e insufficienti, altre più decorose ma tutte ugualmente sterili di sensazioni.
Invece la sua anima emana bellezza, arte e cultura, e si percepisce alla prima occhiata di chi ha avuto, come me, la fortuna e il privilegio di guardarlo.

E questa percezione regala felicità.