giovedì 18 settembre 2014

Intellettuali: chi sono?

 
L’indefinitezza è già nel termine di quella che è una figura così particolare della società, ossia l’intellettuale.
Ma chi è veramente l’intellettuale, al di là che stia chiuso nel silenzio della sua vita o si butti nella mischia magari lottando per un’utopia?
Le interpretazioni sono varie, quanto le idee.
Un’ipotesi è che sia colui che non fa un lavoro fisico, da immaginarsi con una pila di libri e giornali sotto braccio che passeggia con la testa fra le nuvole, pensando che non val la pena di affrontare il mondo perché, tanto, nel confronto ha già perso.
L’altra, sulla stessa scia, che sia uno che fa un mestiere non codificabile in nessuna categoria. 
SANDRO BOTTICELLI
RITRATTO DI DANTE ALIGHIERI
Per fare un esempio: all’anagrafe la parola «intellettuale» da mettere sulla carta d’identità come professione, non esiste.
Nel caso lo siate, non fatevi venire una crisi di nervi: neanche lo storico dell’arte per l’anagrafe esiste.
Consiglio: buttarsi su pubblicista, giornalista e, nel migliore dei casi, scrittore.
Poi ci sono i vari tipi di intellettuali: uomini d’azione o contemplativi. 
Si parte dalla coppia ossimorica Dante e Petrarca, l’uno collerico che nella pur sua non-azione riusciva comunque a rompere,  e tanto anche, le scatole a tutti, l’altro dal carattere diplomatico e cresciuto nelle delizie della corte di Avignone.

GABRIELE D'ANNUNZIO
Diversi ma intellettuali.
Su questo non c’è dubbio.
Della stessa categoria, con sicuramente molta più azione, il Vate, ossia D’Annunzio.
Intellettuale d’azione «finto» era di sicuro Curzio Malaparte che quando si innamorava si concedeva solo una volta alla settimana per non guastarsi il fisico  ma vero per il suo narcisismo, che pare sia una caratteristica comune a tutti gli intellettuali.
Capostipite dei contemplativi fu sicuramente Guillaume Apollinaire, che passava giornate steso nella sua cuccia fatta di cuscini orientali in morbido velluto. 
MARCEL PROUST

Ma il punto apicale di questa categoria è Proust per cui tutto doveva esistere nella fantasia e nulla nella fatica fisica.
Eppure Paruta, storico, diplomatico e politico, già intorno al 1570 scrivendo «Della perfezione della vita politica», sosteneva che il punto d’incontro tra la vita contemplativa e l’azione è proprio la vita politica. Ma non quella di oggi, ovvio.
Ad ogni buon conto esiste anche l’intellettuale disincantato, un vero fenomeno italico.
RICHARD GERE
Basta guardare la commedia all’italiana, i film di Sordi in primis, in cui nulla potrà mai migliorare.
L’esatto contrario della filmografia americana, dove chi ha ragione avrà ragione per sempre: per credere guardare Ufficiale e gentiluomo con Richard Gere.
Strisciante come un serpente spunta un interrogativo.
Ma allora, come deve essere l’intellettuale?
Bella domanda.
Piacerebbe fosse sempre libero, perché non è la libertà che manca ma gli uomini liberi, quelli forse sì.

mercoledì 17 settembre 2014

Botticelli e le sue allegorie

SANDRO BOTTICELLI
AUTORITRATTO
Spirito arguto e irridente, terrorizzato dall’idea di prender moglie, amava la buona cucina e le allegre compagnie, figura bizzarra, protetto dai Medici ma attratto dal misticismo del Savonarola, trovò nell’arte il supremo equilibrio.
Entrato nella storia con un soprannome così radicato da far cadere nell’oblio il nome vero, Alessandro di Mariano Filipopi detto Botticelli, nasce a Firenze nel 1445.
A 18 anni è nella bottega di Filippo Lippi, entrando in contatto con i Medici, signori di Firenze, destinati ad esercitare un profondo e decisivo influsso su tutta la sua carriera d’artista. 
SANDRO BOTTICELLI
ALLEGORIA DELLA FORTEZZA


Nel 1470 risulta padrone di una bottega tutta sua e gli viene commissionata la sua prima opera pubblica, un quadro allegorico della Fortezza, dal Soderini, console dell’Arte di Mercatanzia, che agiva sotto pressione del Magnifico Lorenzo. 
Una  magistrale perizia tecnica e una perfetta padronanza del mestiere sono i segreti dell’eccellenza artistica del Botticelli: preparava tavole e tele con cura maniacale, stendendo gesso e caseina prima e un’imprimitura in chiaroscuro poi, incideva i contorni con una punta acuminata e usava tempera di colla di pesce e rosso d’uovo mescolate con terre di vari colori, dalla gamma praticamente infinita, e polvere di lapislazzuli per gli azzurri.

SANDRO BOTTICELLI - ADORAZIONE DEI MAGI
Nei suoi personaggi melanconici e assorti, esprime con la straordinaria eleganza della linea la fragilità dell’esistenza, l’incertezza del futuro e il timore della morte. Sandro respira  con ebbrezza l'atmosfera esaltante della cerchia medicea, tanto che la stessa Adorazione dei Magi si trasforma in una parata cortigianesca, con tre generazioni di Medici raccolte in ordine sparso ai piedi del Presepe. Solo una volta si allontanò da Firenze: andò a Roma chiamato dal Pontefice per affrescare alcune scene bibliche nella Cappella Sistina.
Non fu un'esperienza felice e ritornò in patria.

SANDRO BOTTICELLI - LA NASCITA DI VENERE - FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI 
Per la villa di Castello dipinse la Nascita di Venere e la Primavera.  
La prima non è affatto una pagana esaltazione della bellezza femminile: tra i significati impliciti c’è anche la corrispondenza del mito della nascita di Venere dall’acqua del mare e dell’idea cristiana della nascita dell’anima dall’acqua del battesimo.
Il bello che Botticelli vuole esaltare è un bello spirituale e non fisico: la nudità di Venere è semplicità e purezza, è pudica e composta. E' talmente bella che non si nota l'innaturale lunghezza del collo, le spalle spioventi o lo strano modo con cui il braccio sinistro è raccordato al corpo.
O meglio: tutte queste libertà che Botticelli si prese, accrescono la bellezza e l'armonia del disegno, perché accentuano l'impressione di un essere infinitamente tenero e delicato, spinto a riva come un dono del cielo.


SANDRO BOTTICELLI - LA PRIMAVERA - FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI

I significati allegorici della Primavera sono vari e complessi: a destra Zefiro, il vento della buona stagione che insegue e possiede Clori, ossia la terra sterile, e la trasforma nella lussureggiante Flora, che è il simbolo della primavera stessa.
Al centro domina su tutti  Venere, il cui atteggiamento casto e composto fa chiaramente capire come non rappresenti qui l'amore carnale ma quella suprema armonia di bellezza e virtù vagheggiata dagli umanisti. E ancora. Le tre Grazie intrecciano una danza, forse a simboleggiare l'esultanza della natura per il ritorno alla buona stagione, mentre Mercurio solleva la bacchetta per dissipare le ultime nubi: un gesto che allude all'amore terreno, che deve innalzarsi all'amore divino.
Ma per scrutare il mistero e ricercare la chiave della Primavera la strada è ancora lunga.
Ma intanto il clima politico era cambiato, assumendo i tratti aquilini, gli occhi accesi e le guance scavate di un predicatore domenicano in fama di santità: fra Gerolamo Savonarola. Le sue orazioni incendiarie divennero l’argomento del giorno, seminando inquietudine e dissensi e Botticelli ne risentì un forte turbamento interiore.
Con il passare degli anni e il precipitare degli eventi – la morte di Lorenzo, il martirio del Savonarola, il declino della borghesia e le prime avvisaglie della Riforma – la sua ansia diventa angoscia, solitudine, disperazione.
Muore il 17 maggio 1510. Vuole essere sepolto nella chiesa di Ognisanti nella tomba di famiglia, con l’iscrizione ’Sepolcro di Mariano Filipepi e dei suoi’.
Di sé e della sua gloria neppure una parola.

lunedì 15 settembre 2014

Caillebotte, l'impressionista con due anime

 

Gustave Caillebotte - 1876
Uomo alla finestra
Studia giurisprudenza, si laurea ma, invece di fare l’avvocato, progetta barche, fa il marinaio, cura l'orto, colleziona francobolli e dipinge.
Un uomo libero, almeno a prima vista, anche se probabilmente lo era meno di quanto lui stesso immaginasse, perché sembrava avesse due anime in lotta fra di loro: una pragmatica, realista e l’altra sognante e pura.
Non sapremo mai quale era quella a lui più vicina.
Certo, poteva fare quel che voleva perché era ricco, e molto anche, di famiglia.
Diventa anche mecenate, aspetto questo che l'ha reso più celebre che non per la sua vita di artista: compra i quadri di Manet e Degas– che lo fanno entrare nel mondo degli impressionisti -, Cezanne, Pissarro, Renoir e Sisley e, alla sua morte avvenuta nel 1894, li lascia alla città di Parigi che, prima li rifiuta, poi, dopo mille esitazioni e litigi con gli esecutori testamentari – tra cui Renoir - li espone prima al Louvre e ora al Museo d'Orsay.
Strano personaggio Gustave Caillebotte, nato a Parigi nel 1848, con una vita borghese, senza drammi apparenti e senza aneddoti di rilievo.
Nel 1986 il suo nome diventa conosciuto ai più: il museo di Washington e di San Francisco inseriscono i suoi quadri in una mostra sull'Impressionismo.
Una folgorazione.
Si capisce subito che è un artista particolare.

Gustave Caillebotte - Levigatori di parquet - 1875 . Parigi, Museo d'Orsay
E volendo, anche discusso.
L'arte di Caillebotte vira verso una strada mai percorsa, ostica anche per il mondo non bigotto ma borghese della Parigi dell'epoca, lastricata di pettegolezzi per la sua presunta omosessualità, aumentata anche dal fatto che non si sposò mai e visse con la madre fino a che lei morì.
Il suo sguardo, raffinato e intelligente, posato sugli uomini si tramuta in una visione  quasi iper-realista: nudi mentre si asciugano davanti alla vasca da bagno, luogo fino ad allora appannaggio esclusivo delle signore, mentre remano con indosso solo la canottiera o a torso nudo intanto che levigano un parquet con i muscoli tesi dalla fatica.

Gustave Caillebotte - Strada di Parigi in un giorno di pioggia - 1877 - Chicago, Art Institute
E' una visione tutta maschile: le donne non ne fanno parte. Sono poco più di comparse, un contorno piacevole ma non indispensabile in una Parigi popolata di gente alla moda con bei vestiti e sfiziosi cappellini, salottiera e che vuole divertirsi nei cabaret o nei locali alla moda.
Più che l’altra metà del cielo, gli interessano gli interni eleganti del suo palazzo di Rue de Miromesnil - che poi venderà per comprare una tenuta enorme, un buen retiro che non lascerà più - con ambienti all’apparenza scuri ma con la luce che entra dalle finestre per rendere lo spazio pervaso da una chiarezza assoluta.
Uno spazio incrinato nella sua serena tranquillità e riservatezza da uomini (lui stesso?) ripresi di spalle affacciati ai balconi, istantanee di attimi fuggenti eppur così reali: borghesi, eleganti, quasi in posa, fissi come statue che contemplano impassibili la vita che passa al di sotto di quella grande e quasi sproporzionata balaustra: un vero e proprio confine con il resto del mondo.
Che avesse paura di buttarsi  nella mischia del mondo che viveva sotto la sua finestra?
Che si sentisse superiore al punto da estraniarsi e rimanere solo con la sua pittura, le sue abitudini, i suoi pensieri?
Può darsi, d’altronde Caillebotte non era un artista bohemien alla Puccini che vendeva i suoi quadri a pochi franchi per riuscire a mangiare, non era un folle senza un quattrino come Van Gogh e non era un amante dell'esotismo come il fuggitivo Gauguin, eppure dipingeva allo stesso modo dei suoi colleghi impressionisti che sarebbero diventati famosissimi.
Gustave Caillebotte - Strada in salita  -1881
Ma era forse anche di più.
Andava oltre l’impressionismo con quei suoi due modi di affrontare il mondo con pennelli e colori.
Da una parte fotografava la realtà nuda e cruda, com’era, con quella visione dell’uomo così nuova e strabiliante, che di impressionismo aveva  ben poco, con una pittura liscia e perfetta in ogni particolare, senza sbavature o tracce di fantasia.
Dall’altra lui c'era, impressionista fino al midollo, con otto quadri esposti, alla mostra parigina in quell'aprile del 1876, in quella rivoluzione che cambiò per sempre il corso ultra millenario della storia dell'arte.
C'era eccome in quel modo di dipingere non piatto e accademico ma affrontato a muso duro, spessissimo all'aperto con il mondo visto alla luce naturale e reso con pennellate spezzate, libere e sciolte dentro un disegno sapiente di linee e proporzioni.
Gustave Caillebotte - Frutta sulla bancarella - 1881
C'era perché aveva nella sua anima il senso vivo del colore che si ritrova nelle sue nature morte, con la frutta messa in posa come manichini ma viva e fresca, o nell'acqua che sembra che si muova, argentea per i riflessi del sole, o ancora nei parchi, nei boschi e nei cieli dove la natura, splendente, luminosa, ricca di sfumature rese con il pennello che davvero seguiva la mente, quasi sognante, ha il sopravvento su quella piccola cosa che è l'umanità.
Una tavolozza di gioia e di allegria, per rendere la sua vita meno monotona di come era nella realtà e, forse, più felice e libera da convenzioni.
O, almeno, lo speriamo.
 
Sul mio canale YouTube trovate il video su Gustave Caillebotte: