martedì 23 settembre 2014

Modigliani, l'artista maledetto

Amedeo Modigliani
AUTORITRATTO - 1919
Nell’assonanza fonetica con il soprannome francese di Modì, Amedeo Modigliani incarna la figura dell’artista maudit, maledetto, costantemente alla ricerca di una irraggiungibile forma espressiva soddisfacente. 
Amedeo Modigliani
TESTA DI DONNA
Figlio di un toscano di origini ebree e di una francese, nacque a Livorno il 12 luglio 1884 e dopo una formazione nelle accademie di Firenze e Venezia, avvolto dai fumi di droghe e alcol, nel 1906 si trasferisce a Montparnasse a Parigi.
Lì capisce subito che tutta l’arte moderna nasce da Cézanne, ma nei suoi confronti ha un limite idealistico: per Modì alla chiara intelligenza della verità non si giunge con l’intelletto ma con il sentimento. 
Uno dei suoi primi amici, lo scultore rumeno Brancusi, gli ispira il culto della forma pura e chiusa in cui la linea, da sola, plasma e definisce il volume.
Lo inizia alla scultura africana, un’esperienza che Modì trasporterà poi nella pittura, assumendo il colore non più come complemento ma come materia intrinseca della forma.

Amedeo Modigliani - 1917
DONNA CON CRAVATTA NERA
Nel 1917 incontra Jeanne, studentessa diciannovenne che per lui abbandona la famiglia. Per due anni si trasferiscono a Nizza per curare le sue crisi polmonari e lì nasce la loro bimba.
Tornano a Parigi e vivono nella miseria più nera, aiutati da qualche amico e dal ricavato di qualche quadro venduto a pochi franchi.
Nei suoi molti ritratti e nudi di donna, i contorni fortemente segnati saldano, in una sola superficie compatta, piani a profondità diverse, le varie parti della figura e i vari piani del fondo.
La linea talvolta è pesante come un solco nero scavato nella massa del colore, talvolta sottile, filiforme e il colore è ora denso, ora magro, ora modulato in tonalità tenui, ora intenso.
In lui non c’è la stesura cromatica dei Fauves, ma la scomposizione cubista, eppure perché non arriva alle estreme conseguenze, rimanendo nel tipo tradizionale del ritratto?
Perché per lui la pittura non deve essere analitica ma poesia: il linearismo è sottilmente intellettuale e intensamente espressivo, il colore è rigorosamente plastico.

Amedeo Modigliani - NUDO ROSSO - 1918
È la sua poesia raffinatissima ma appassionata, velata solo da una desolata malinconia.
L’inconfondibile allungamento delle figure – i suoi colli lunghi sono diventati proverbiali – esalta l’eleganza leggera e solitaria dei personaggi. 

Amedeo Modigliani
RITRATTO DI JEANNE 1918
Segue i contorni dei corpi femminili con l’ineguagliabile finezza del disegno di quattrocentesca matrice toscana, lasciando emergere una sensualità vera e palpitante.
Modì non ammette nei suoi ritratti sguardi che non siano assenti, introspettivi, il più possibile chiari e dolci. 
Dal ritratto di Elvira del 1916 a quello di Jeanne del 1918 fino al famoso Nudo rosso e all’Autoritratto del 1919, una delle sue ultime immagini corroso dalla salute malferma e dagli abusi di assenzio e altro, è sempre il medesimo atteggiamento di abbandono, il medesimo sguardo sperduto.
Nei personaggi di Modì l’aplombe non è perfetto: pencolano un po’ a destra o un po’ a sinistra, eppure la loro caratterizzazione è viva, inequivocabile.
Portato per natura a non legarsi a correnti o avanguardie, non fa scuola: resterà sempre un grande isolato.
Muore il 24 gennaio 1920, a soli trentasei anni.
Il giorno dopo la moglie Jeanne, disperata, si lancia dal terzo piano di casa.
Sono sepolti l'uno accanto all'altra nel cimitero del Père Lachaise di Parigi.

domenica 21 settembre 2014

Simone Martini, la luce del Medio Evo

SIENA NEL MEDIO EVO
Fate un gioco: immaginate di essere catapultati nel bel mezzo del Medioevo. 
La vita quotidiana scandita dal suono delle campane, le case e le botteghe illuminate dalle candele e dalle lampade a olio. Si mangia quel che si trova e si è fortunati se non si muore di peste.
Immaginate di essere a Siena all'inizio del Trecento e di vedere per le strade piene di giullari e predicatori in odore di stregoneria o di scomunica, un ragazzo, magari con i vestiti rammendati e un po’ sporchino, perché in quell’epoca ci si lavava ben poco, che va a pulir pennelli nella bottega di un pittore già affermato.
E’ lì, da Duccio di Boninsegna che quel ragazzo impara la pittura. Impara presto perché ha talento da vendere.  
A quel ragazzo, i senesi danno il tempo di impratichirsi e dopo qualche anno gli commissionano affreschi e dipinti per cui avrà gloria perenne nella storia, oltre al ringraziamento di noi comuni mortali del terzo millennio per il regalarci così tante emozioni e meraviglie: è Simone Martini, il simbolo dell’eleganza gotica.
Proprio lui, che era il corrispettivo in pittura di quel che Petrarca era in poesia.
Di Simone, due opere in particolare tolgono il fiato.
La prima è un affresco nella Sala del Consiglio del Palazzo Pubblico di Siena, Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi, dipinto nel 1330.
Un affresco grande, quasi 10 metri per tre e mezzo che copre tutta la parete che continua a essere il centro di polemiche per i restauri che hanno evidenziato rifacimenti nella parte sinistra, quindi mettendo in discussione il nome di Simone, ma anche per la lamina d'argento che ricopriva la gualdrappa e l'armatura del cavallo. Da ricordare, su questo punto, che Simone era affascinato dall'oreficeria e usava spesso le punzonature tipiche dell'arte orafa senese del XIV secolo. Ma, al di là delle polemiche, Guidoriccio resta e resterà per sempre un capolavoro.
L’immagine celebra il condottiero che aveva conquistato anche il castello di Sassoforte per i senesi, che poi lo perderanno, lo riconquisteranno e lo perderanno ancora ma va beh, la storia è fatta di sconfitte e vittorie.

SIMONE MARTINI - GUIDORICCIO DA FOGLIANO - SIENA, PALAZZO PUBBLICO
Lui è grandioso: in bilico tra la concretezza realistica dei singoli dettagli e il favoloso, irreale, effetto d’insieme.
E’ da solo, in una landa sabbiosa  e deserta. In dieci metri di colori quasi neutri, non c’è nessun altro. Si vedono gli accampamenti militare, i castelli, i monti, le bandiere ma non c’è anima viva.
E’ lui, vittorioso, con uno straordinario mantello a losanghe.
Lo immaginiamo urlare al mondo che si può vincere anche da soli, che sì ci vuole forza, coraggio e forse fortuna, ma si può.
Ma Simone non era solo questo.
Simone era poesia, eleganza, raffinatezza, bellezza spirituale.
SIMONE MARTINI - ANNUNCIAZIONE
FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI
Nata nel 1333 per il Duomo di Siena, ora agli Uffizi, la sua Annunciazione lascerà un segno in tutta la storia dell’arte a venire. Guardatela.
E’ misteriosa e affascinante. L’oro del fondo accoglie in uno spazio irreale, quasi fosse un velo protettore, le sagome aristocratiche dei due protagonisti.
Ma è lei, la Madonna, quel qualcosa in più che fa di un quadro un capolavoro.
Lei, con la paura, così umana e femminile, di quell'annuncio che si materializza nel colore che pare fuggire davanti alla sola luce dell’angelo.
Lei, che come la donna celebrata dal Petrarca, è immersa nella luce ma non la emana.
Lei, con quel suo ritrarsi che la rende ancor più vera, con lo sguardo attonito contrapposto al sorriso accennato dell’angelo che le porge un ramo d'ulivo e non i gigli, simbolo dell’odiata Firenze che però devono vedersi, nel vaso dietro, perché anche simbolo di verginità. E con le regole dell’iconografia cristiana si poteva scherzare poco, anzi, pochissimo.
Eccoli i capolavori di Simone, nati in quel Medio Evo che per gli storici è un'epoca buia, quasi selvaggia, ma che è la base della modernità per la letteratura, la filosofia, la politica vera e la storia dell’arte.
L’epoca in cui Dante aveva già scritto la Divina Commedia, Petrarca i suoi sonetti, Boccaccio il suo Decamerone e la musica era dolce e lieve come un dono divino.
Un’epoca in cui Marco Polo era già stato in Cina, in cui nascono capolavori dell’oreficeria e le biblioteche laiche, in cui nascono edifici come la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, la Basilica di San Marco a Venezia e il Duomo di Milano. 
E, scusate, a me non pare affatto un’epoca buia. Anzi, direi che è luminosissima. 

sabato 20 settembre 2014

Vincent Van Gogh: il dramma dell'artista

 
VINCENT VAN GOGH
AUTORITRATTO A SAINT REMY 1889
È Vincent van Gogh, nato il 30 marzo del 1835 a Groot-Zundert, il simbolo del dramma dell’artista che si sente escluso da una società che non utilizza il suo lavoro e ne fa un disadattato, candidato alla follia e al suicidio.
Il suo posto è accanto a Kirkegaard o Dostoevskij: come loro si interroga, pieno d’angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere nel mondo.
Non è pittore per vocazione ma per disperazione. Nel 1887 scriverà: “Esercito un mestiere sporco e difficile: la pittura. Se non fossi quel che sono non dipingerei e intravedo la possibilità di fare quadri dove ci sarà un po’ di freschezza, un po’ di gioventù, essendo la gioventù una delle cose che ho perduto”.
Aveva tentato di inserirsi nell’ordine sociale ma era stato respinto.
A trent’anni si rivolta e la sua rivolta è la pittura: la pagherà col manicomio e col suicidio.
In un primo tempo, in Olanda, prende di petto il problema sociale e descrive con toni cupi la miseria e la disperazione dei contadini, fino al capolavoro tragico dei Mangiatori di patate. 
VINCENT VAN GOGH - MANGIATORI DI PATATE - 1885
Nel 1886 raggiunge il fratello Theo a Parigi, che lo aiutò finanziariamente e affettivamente fino alla morte, e vede gli impressionisti: abbandona i temi sociali e dal monocromo passa a un cromatismo violento.
Mentre dipingevo ho sentito risvegliarsi in me una potenza di colore più forte e diversa da quella che avevo posseduto finora”.
Nel febbraio del 1888 si trasferisce nella “casa gialla” di Arles e in due anni compie la sua opera d’artista.
VINCENT VAN GOGH - 1887
QUATTRO GIRASOLI APPASSITI
Arrivato in Provenza si entusiasma per la vita solare. Scriverà a Theo: “Abbiamo qui un calore stupendo, intensissimo, un sole, una luce. Com’è bello il giallo!”
Intensifica ancora i colori, abbandonando lo sfarfallamento impressionista a vantaggio di vaste campiture monocromatiche e di larghe striature che danno forma e colore agli oggetti.
Sono i giorni delle infinite tele coi girasoli ma anche della distorsione prospettica della Camera da letto. 

VINCENT VAN GOH - CAMERA DA LETTO - 1888
Paul Gaugin lo raggiunge in ottobre, ma dopo un primo periodo di convivenza armoniosa e ricca di stimoli, il rapporto fra i due entra in crisi.
La vigilia di Natale Vincent colpisce l’amico con un rasoio e Paul, spaventato, lascia la casa.
Nella notte van Gogh ha una crisi di follia e si recide il lobo dell’orecchio sinistro, lo avvolge in un giornale e lo porta a una prostituta.
Dopo questo episodio dipinse alcuni terribili autoritratti.
Lo ricoverano all’ospedale di Saint-Rèmy, dove tornerà più volte colpito da allucinazioni e crisi di schizofrenia.
Il 16 maggio 1890 lascia Saint-Rèmy per Auvers-sur-Oise, vicino a Parigi: “Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello quasi mi casca dalla mano”.
VINCENT VAN GOGH -  NOTTE STELLATA - 1889
Qui dipinse molto, è il periodo degli Ulivi, delle stelle ruotanti sul destino umano della Notte stellata, dei Cipressi, “un cipresso è bello, come un obelisco egizio, è la macchia nera in un paesaggio assolato”, dei ritratti, dei paesaggi come la Chiesa d’Auvers, visione allucinata del piccolo borgo tranquillo, degli alberi tormentati come esseri umani, delle incredibili distese di campi di grano sotto un cielo azzurro piombo con voli di corvi.
Il 27 luglio 1890 si spara una revolverata.
Muore la notte del 29 dopo aver passato l’intera giornata seduto sul letto a fumare la pipa. Addosso gli fu trovata una lettera: “per il mio lavoro io rischio la vita e la mia ragione è quasi naufragata…”

VINCENT VAN GOGH - ALBERI DI ULIVI - 1889