martedì 2 settembre 2014

Un mondo fatto a cuore



Mappamondo turco-veneziano fatto a cuore
1559/1568 Venezia, Biblioteca Marciana
Lo vorremmo tutti un mondo fatto a cuore, suggestivo, emozionante e onirico. E se gli scettici non ci credono, esiste davvero e si può anche vedere, anche se solo dentro una vetrina.
E’ il mappamondo della Biblioteca Marciana a Venezia, restaurato pochi anni fa.
La storia del cuore potrebbe essere la trama di un fantasy: nei complessi e variegati rapporti di odio e amore tra Venezia e l’Islam, la cartografia aveva un ruolo di rilievo, tanto che Maometto II chiese, già nel 1479, una sagoma di Venezia a Gentile Bellini, che gli aveva fatto un ritratto incredibilmente bello.
Passa qualche anno, siamo a metà del Cinquecento, la richiesta dei Turchi Ottomani di mappamondi e globi era diventata davvero notevole e la Serenissima era considerata la potenza più forte e indiscussa nella cartografia. Ma loro erano musulmani, che comunque non gradivano che mani infedeli usassero i loro caratteri.
Ed ecco il colpo di genio: un gruppo di eruditi - il geografo Ramusio, il cartografo Gastaldi, l’orientalista Postel, lo stampatore Giustinian e l’incisore Nicostella da Magonza - partendo dal modello del 1511 tratto da Tolomeo, adorato dall’Islam, inventa questo cuore, trapunto da scritture in turco con sezioni riservate a nozioni geografiche, paesi, imperi, regni e principati.
Il pool occidentale aggiunge una sfera armillare e due tondi con le costellazioni celesti.
Uno spettacolo.
E non importa se l’Antartide o l’America meridionale sono frutto di congetture o se la forma appuntita non dà indicazioni perfette. Per non essere sgamati, si inventano tal Hajji Ahmed, che si autodefinisce «povero, meschino, impotente e indigente», però turco doc, quale autore di tal immane opera.
I musulmani ci cascano, nonostante la terminologia anche religiosa sia piena di refusi e di errori che un seguace di Maometto mai farebbe. Tant’è.
 

Caravaggio: genio, pettegolezzi e tormenti dell'anima


Caravaggio
Davide con la testa di Golia, particolare
1609/1610 - Roma, Galleria Borghese
Era dannato e lo sapeva benissimo, a tal punto che dipinse la sua faccia allucinata nella testa mozzata di Golia.
Ma non era solo dannato.
Era un genio.
Un genio dagli occhi e dai capelli foschi che sconvolse quella Roma della Controriforma strangolata dall’Inquisizione. E la sconvolse non perché sembrava uno sgherro più che un pittore, non perché era sempre pronto a far baruffa, non perché andava a letto vestito col pugnale in fianco e non si separava mai dalla sua spada che adoperava quanto i pennelli e non perché frequentava puttane e furfanti, ma perché stravolse buttandola a gambe all’aria quella pittura stereotipata così cara all’Accademia di San Luca, perché fu l’inventore della natura morta italiana fino ad allora appannaggio assoluto dei fiamminghi, perché colse nella luce e nelle ombre una forza inimmaginabile, perché mise in discussione l’iconografia classica, perché ripudiò il bello ideale per affermare il dramma dell’esistenza e della morte, dell’angoscia, della solitudine e della salvezza eterna.
Non serve il tarlo del pettegolezzo becero che spesso racconta del suo primo maestro Peterzano come un pedofilo che lo insidia, tralasciando che fu lui a insegnargli la forza del colore imparata a sua volta da Tiziano.
Non serve parlare dei baci e delle carezze con ragazzi o prostitute senza citare l’ambiente colto del palazzo del cardinal del Monte che lo vide amico del poeta Giovan Battista Marino.
Non serve bisbigliare del suo infilare una rosa nei capelli del suo modello omosessuale per ritrarlo nel Ragazzo morso dal ramarro senza dire che nell’insidia dei sensi rappresentata da quella rosa si nasconde la morte. 
Caravaggio - Giuditta e Oloferne - 1599
Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica
 

Di quel ragazzo piovuto dalle nebbie del Nord nella Roma papale si spettegola di duelli e risse ma poco si discute del conflitto interiore che lo vide dilaniato tra la forza della fede e una vita da peccatore.
Ci si scandalizza nel vedere una prostituta far da modella per la Giuditta ma non sempre si fa capire che quel quadro inaugurò con la teatrale violenza del gesto, drammaticamente sottolineato dalla luce, la sua poetica dell’orrore su cui ritornerà spesso negli anni a venire.
Si tramanda la vicenda del trasporto di un cadavere fetido e puzzolente come fosse una stramberia degna di un folle, senza magari degnarsi di andare oltre a capire che quel morto era l’inconsapevole modello per seguire alla lettera le parole del Vangelo che raccontavano di Lazzaro.
Caravaggio - Morte della Vergine
1605/1606
Parigi, Museo del Louvre
Si spettegola ancora sulla ragazza affogata nel Tevere distesa tra le candele e poi ritratta con il ventre gonfio nella Morte della Vergine, ma poco si fa cenno al tema del pianto già presente nella deposizione al sepolcro tutto volto ad esprimere l’umana realtà di un dolore non ancora trasfigurato dalla Grazia.
Si raccontano sangue e omicidi, ubriacature e feste con femmine poco aristocratiche.
Poco importa.
Al di là di pettegolezzi quasi fosse un personaggio da copertina di giornaletti scandalistici, di Caravaggio rimarrà la gloria sempiterna, il suo essere genio al di là delle convenzioni accademiche e delle persone ‘per bene’.
 
 
Sul mio canale YouTube potete vedere il video su Caravaggio:

Livio Seguso e la magia del vetro

 
«Il vetro è un materiale magico, non ha solo tre dimensioni come il marmo o il legno.
Ha un plusvalore, la quarta dimensione, che chiamerei penetrazione perché nel vetro riesci a entrare, lo sguardo arriva a scrutarne la parte più interna e misteriosa ed è solo la sua trasparenza che ti dà questa possibilità».
Allusioni sensuali? Peut-être.
Ma l’intimità raggiunta da Livio Seguso, scultore muranese classe 1930, con quella magica alchimia di sabbia e fuoco chiamata vetro è assoluta.
Ne conosce ogni segreto, ogni bizzarria, ogni sfumatura, ne intuisce le forme possibili o impossibili per le logiche regole fisiche e di gravità, ne carpisce i guizzi più profondi imprigionandone la luce secondo i suoi progetti geometrici.
Seguso «pensa in vetro» già dalla idea primigenia, da quel lampo che dalla sua mente diventerà una scultura, sapendo in anticipo come si evolverà la massa incandescente, quali saranno le vie da seguire.
Un approccio all’arte del vetro da artifex dal sapore rinascimentale, senza mediazioni di mani esterne.
In lui il pensiero diventa movimento del corpo e delle mani, indurite e levigate dal caldo dei ferri di fornace ma incredibilmente capaci di sensibilità infinitesimali nel plasmare per poi concludere lisciando e lucidando vetro, marmo, granito e legno sì da renderli morbidi, a dispetto della loro intrinseca durezza.
E questa capacità di 'mestiere' è stata la base della sua ricerca artistica, iniziata come tutti con il figurativo per poi giungere alla consapevolezza di una identità personale ed originale.
E’ con la luce che Seguso costruisce le sue sculture per giungere all’assoluta purezza formale, come nelle opere degli anni ’80, «col grande gioco dello spazio e della luce - scriveva Pierre Restany - con l’uso della trasparenza del vetro come pratica quasi ironica di un gioco ottico senza fine».
Ecco allora Vortice, Infinito, Spazio ideale: sfere e dischi in cristallo trasparente nati per acchiappare la luce in tutte le sue forme e rigenerarla, diversa ogni attimo, in una sorta di caleidoscopio virtuale.
Alla fine di quel decennio per Seguso arriva la svolta.
Il suo percorso, dall’origine alla forma, viene sottolineato da una parte dall’uso di marmi, di graniti e di pietre che diventano involucro della sfera di cristallo e dall’altra la precisione del vetro in diverse densità luminose.
Le pietre e il cristallo formano entità strutturali diverse e nascono le connessioni ideali, con una contrapposizione controllata del marmo bianco e del vetro bluastro, o le compenetrazioni, una serie di invenzioni complesse, dalla perfezione formale assoluta.
Ma la ricerca di Seguso continua.
L’ultima sua scoperta è il legno, con le sue vene lasciate volutamente in vista seppure controllate da una rigorosa geometria.
Ma il legno convive, ancora una volta, con il vetro, «materiale - afferma - che sembra nascere dal mare per vivere nell’aria, che affascina e accende la fantasia».