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martedì 6 settembre 2016

Marino Marini, scultore etrusco

Marino Marini nel suo studio - 1963
Fotografia di Paolo Monti
Colui che si può definire come il massimo scultore etrusco moderno, Marino Marini, nacque a Pistoia il 27 febbraio del 1901.
La sua vita è già segnata dagli studi intrapresi, infatti si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Firenze, che frequenta dal 1917, poi, negli anni successivi prende la strada della scultura, ma non abbandonerà mai la pittura.
E’ in questi primi esordi che in lui nascono le linee guida che seguirà tutta la vita.
Lui è toscano, quindi etrusco, e sarà proprio la civiltà etrusca a dargli l’ispirazione, oltre ai lavori di un altro grande scultore a lui contemporaneo, Arturo Martini. 
I soggetti che Marini amava rendere immortali erano davvero pochi: le Pomone, i cavalli e i cavalieri, il mondo del circo e del teatro e i ritratti.
Marino Marini - Pomona sdraiata - 1935
Milano, Pinacoteca di Brera
Pomona era la dea etrusca della fertilità e lui che aveva il sangue etrusco,  si sentiva un diretto discendente di quella civiltà così elegante e raffinata, le cui sculture erano fatte di linee essenziali e rigorose, senza orpelli decorativi e questo soggetto gli serviva per sviluppare il tema del nudo femminile.
Il soggetto dei cavalli con i cavalieri lo riprende ancora dalla tradizione della scultura etrusca per sviluppare il tema della figura equestre. Interpretando i temi classici in uno spirito moderno e con tecniche altrettanto moderne, Marino cerca di rappresentare un’immagine mistica che sia adatta a un contesto contemporaneo.

Marino Marini - Angelo della città - 1948
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
L’evoluzione dei vari cavalli e cavalieri che realizza, sono la sua risposta al continuo evolversi della società così mutevole negli anni in cui lavora.
Questo tema compare per la prima volta nel 1936, con le due figure relativamente slanciate, per arrivare fino alle ultime sculture dove il cavaliere cadrà a terra, in un’immagine apocalittica di perdita di controllo, parallela al senso di disperazione e di incertezza sul futuro del mondo che lo pervade.
E ancora i temi del circo e del teatro, dove l’uomo è visto come saltimbanco, in bilico tra il bene e il male, in cerca perennemente di un equilibrio che nessuno trova o i ritratti che gli servono per rappresentare il mondo umano che lo circonda.

Marino Marini - Cavaliere - 1950
Pistoia, Fondazione Marino Marini

Ed è proprio lui il successore di Martini come docente alla Scuola d’Arte di Villa Reale a Monza, dove continuerà a insegnare fino al 1940.
Non vive solo per insegnare ma anche per curiosare il mondo: numerosi sono i viaggi che in questi anni compie a Parigi, dove incontra Massimo Campigli, Giorgio de Chirico, Alberto Magnelli e Filippo de Pisis.
Nel 1936 va in Svizzera, precisamente a Locarno nel Canton Ticino, e negli anni seguenti è spesso a Zurigo e Basilea, dove stringe amicizia con un altro grande scultore, Alberto Giacometti.
Il 14 dicembre 1938 sposa l’amore della sua vita, Mercedes Pedrazzini, che chiamerà Marina e con cui avrà sempre un rapporto molto intenso.

Marino Marini - Giocoliere - 1940
Pistoia, Fondazione Marino Marini
Dopo aver vinto il Premio della Quadriennale di Roma, nel 1940 gli assegnano la prestigiosa cattedra di scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dove nel 1946 si stabilisce definitivamente.
Ancora viaggi fino negli Stati Uniti d’America, a New York, dove conosce altri importanti artisti come Jean Arp, Alexander Calder, e Lyonel Feninger.
Quando torna dalla Grande Mela si ferma a Londra, città in cui conosce lo straordinario scultore Henry Moore.
Partecipa e vince numerosi premi in varie manifestazioni mentre le sue opere sono esposte in tutti i più importanti musei del mondo.
Marino Marini muore a Viareggio il 6 agosto 1980 ed è sepolto nel cimitero comunale di Pistoia insieme all'amata moglie.

lunedì 29 dicembre 2014

Il giovane surrealista Giacometti

 
ALBERTO GIACOMETTI
PAESAGGIO AD ACQUERELLO
Per giungere alla distruzione della scultura, riducendola a una sagoma filiforme a cui aderiscono solo pochi residui di bronzo, come sgocciolature di cera, Alberto Giacometti, nato nel 1901, fece un percorso che lo vide protagonista fin dalla tenerissima età.
Un tragitto che parte dal figurativo per approdare al surrealismo.
I primi anni, quelli che vanno dal 1911 al 1929, riservano molte sorprese.
Insomma, un Giacometti quasi sconosciuto.
ALBERTO GIACOMETTI
TESTA DEL FRATELLO DIEGO
Impressionisti sembrano infatti i primi acquerelli, dipinti quando Alberto aveva appena dieci anni, che trasudano dell’arte del padre Giovanni all’epoca famoso pittore, con varie immagini, dai paesaggi dell’elvetica Val Bregaglia dove nacque, ai ritratti di familiari e amici, a nature morte.
Dipinti che richiamano la gioia di vivere, l’intensa cromia dei sentimenti positivi, lontani anni luce dalle opere tarde dove il colore praticamente scompare.
Un passaggio comunque fondamentale, anche se lui stesso, nelle mostre che a lui saranno dedicate nel periodo d’oro del dopoguerra, tenderà a lasciare in disparte, forse anche per il suo essere così ipercritico verso sé stesso.
Ma è il Giacometti scultore agli esordi che stupisce.
La testa in bronzo del fratello Diego, plasmata in plastilina all’età di tredici anni e successivamente fusa nel metallo, riporta senza ombra di dubbio all’Académie, che frequentò a Parigi dal 1922 al 1927.
Sono quelli però gli anni della formazione.
ALBERTO GIACOMETTI - APOLLO
Il giovane Alberto passa intere giornate al Louvre, si  incanta davanti alle sculture cicladiche e africane, e se è uno tra gli ultimi a studiare quelle del continente nero, sarà uno dei primi ad interessarsi della scultura oceanica e messicana che lasceranno tracce indelebili.
Il Torso maschile del 1925 è una figura geometrica, post cubista, così come il Piccolo uomo accovacciato rimanda alle lastre piatte messicane, con la materia già abbozzata in quel «non finito» che sarà la sua firma virtuale, il suo segno specifico e irripetibile.
ALBERTO GIACOMETTI
COPPIA
E’ il pensiero del rapporto uomo/donna ad intrigarlo, che più avanti cederà il passo all’idea della morte.
Ecco allora la Coppia vista con uno sguardo africano, con l’occhio maschile reso uguale al sesso femminile così come il fallo dell’uomo diventa l’occhio della donna.
Ancora di ispirazione africana la Donna cucchiaio, dove ne enfatizza il ventre e il grande seno.
Era, in nuce, il concetto fondante del suo essere artista: il voler rappresentare quel che vedeva.
E nelle sculture degli esordi la sua visione è più globale, anche se la parte posteriore delle teste non è mai finita perché, diceva, non possiamo vedere il viso e contemporaneamente anche la nuca.
ALBERTO GIACOMETTI - DONNA SDRAIATA CHE SOGNA


 In quella visione entrano anche i vuoti, come nella Donna sdraiata che sogna, parte integrante e fondamentale, così come le linee ondulate e le barre che compongono altre figure.
E’ il 1929, sono le sue prime opere surrealiste, rivoluzionarie dal punto di vista formale, che gli doneranno i primi momenti di gloria.
Gloria che arriva poco dopo, contraendo la figura, riducendola a poco più di un filo che scomparirebbe, se non la trattenesse alla soglia del nulla, un ultimo, precario, residuo di materia.

martedì 25 novembre 2014

Violenza e piacere: l'amore secondo Bernini

GIAN LORENZO BERNINI
RATTO DI PROSERPINA
ROMA, GALLERIA BORGHESE
Ah l’amore!
Il sentimento dalle mille sfumature e dalle innumerevoli sfaccettature, dalle più romantiche e delicate a quelle più focose e sanguigne.
E innumerevoli sono anche i modi in cui l’amore è stato declinato nell’arte, sia in pittura che in scultura.
In questo campo il più grande e talentuoso è stato Gian Lorenzo Bernini, nato a Napoli nel 1615 da padre anch’esso scultore.
Dotato di incredibile manualità, la sua grandezza sta nell’aver avuto una sconfinata fiducia del suo essere padrone della tecnica, che lo rese capace di realizzare tutto ciò che desiderava.
Dalle sue sculture ottiene la morbidezza della seta, il tepore e il colorito della carne, la leggerezza dei capelli, lo stormire delle fronde, ma soprattutto insegna ad immaginare.
E lo fa con il gioco della luce, con la nuova estetica del Barocco che ricerca sempre le linee curve per esprimere slancio, vitalità e movimento.
Tra le prime opere che realizzò, tra il 1615 e il 1625,  ci furono le quattro sculture per il cardinal Scipione Borghese che lo resero giustamente subito famoso.
GIAN LORENZO BERNINI
RATTO DI PROSERPINA - PARTICOLARE
Nel ratto di Proserpina riesce a rendere visibile l’amore violento di Plutone verso la bellissima dea delle messi.
Si immagina davvero uno stupro, con il terrore nel volto della ragazza, giovane e indifesa contro un bruto, le mani di lui che la afferrano con violenza fino a farle penetrare le dita nelle cosce e nel fianco di un marmo che sembra molle come il burro e il disperato tentativo di lei di liberarsi con un braccio dalla forza bruta, ma invano. 
GIAN LORENZO BERNINI
APOLLO E DAFNE
ROMA - GALLERIA BORGHESE
O ancora Apollo che vuole disperatamente Dafne, che per sfuggirgli chiede alla madre Gea di essere tramutata in una pianta di alloro piuttosto che cedere alle voglie carnali e lussuriose di quel dio così bello ma così crudele.
Immaginiamo un'altra violenza, una voglia malsana di carne e di piacere, una voglia di possesso tutta maschile, che porterà la poverina alla morte.
Ecco, Bernini ci ha regalato l’ultimo anelito di vita di Dafne, mentre diventa alloro, con le foglie che le spuntano già sulle dita, mentre prova disperatamente a fuggire dal suo carnefice che l’ha già presa per il ventre.
Bernini ha reso quell’attimo drammatico: dopo qualche istante Dafne si bloccherà nella staticità più assoluta.
E l’ha fatto usando un motivo ad arco, con linee morbide e fluttuanti nell’aria, con uno sbilanciamento in avanti che rende palpabile la corsa di lei per sfuggire alle voglie di lui.
Un genio.
Ma non solo amore violento, che in realtà è una contraddizione: l’amore non è mai violento e se lo è non è amore.
Anche l’amore che regala il piacere.
E due sono le figure femminili in cui, seppur in un contesto altamente sacro, Bernini, con il suo irripetibile modo di trattare il marmo, ci fa vedere e toccare quel particolare attimo, fuggente anch’esso, dell’amore, in cui tutto il corpo è pervaso dal piacere e da sensazioni irripetibili. 
GIAN LORENZO BERNINI
ESTASI DI SANTA TERESA
ROMA - S. MARIA DELLA VITTORIA
L’Estasi di santa Teresa, nella cappella Cornaro  della chiesa di santa Maria della Vittoria a Roma, realizzata intorno al 1650, è un monumento scenografico e illusionistico.
Un capolavoro.
Teresa era famosa per le sue estasi durante le quali raggiungeva l’unione mistica con Dio.
Bernini, la coglie, sensuale ed erotica e insieme mistica e spirituale, proprio nell’attimo del rapimento dei sensi, con le vesti scompigliate, abbandonata, la bocca semi aperta, la testa inclinata all’indietro.
Al tempo, questa sua visione suscitò non poche polemiche. Ovvio.
Ma la sua genialità fu di sospendere la figura su un masso a forma di nuvola la cui base più scura è praticamente invisibile, quindi sembra che Teresa sia sospesa in aria.
La finestrella da cui entra la luce che illumina la scultura, accentuata dall’invenzione dei raggi dorati a far da quinta scenografica.
Un’invenzione che crea meraviglia e stupore, che fonde architettura, scultura, luce e pittura. 
Anche nell’Estasi della beata Ludovica Albertoni, del 1674, nella chiesa romana di san Francesco a Ripa, la donna è colta nel momento clou delle sue visioni mistiche. 
GIAN LORENZO BERNINI
ESTATI DELLA BEATA LUDOVICA ALBERTONI
ROMA, SAN FRANCESCO A RIPA
Adagiata su un letto, con la testa posata su un morbido cuscino, l'abito stropicciato quasi si fosse girata troppe volte senza trovare pace, la schiena inarcata, una mano sul seno e l'altra sul ventre, la testa inclinata all’indietro, gli occhi chiusi, le labbra socchiuse come se volesse parlare ma la voce fosse rimasta strozzata in gola.
Bernini quando la scolpì era già settantenne, si racconta che fosse uomo profondamente devoto. Eppure con le sue opere ha acceso la nostra fantasia, ci ha fatto immaginare, andare oltre il reale, superando così le intenzioni di quel realismo tanto caro a Caravaggio.
E nulla vieta di pensare che magari, anche solo per un attimo, nei volti delle due mistiche donne, abbia frugato nella sua memoria per ritrarre quell’attimo fuggente, fonte di gioia, felicità e piacere.

martedì 2 settembre 2014

Livio Seguso e la magia del vetro

 
«Il vetro è un materiale magico, non ha solo tre dimensioni come il marmo o il legno.
Ha un plusvalore, la quarta dimensione, che chiamerei penetrazione perché nel vetro riesci a entrare, lo sguardo arriva a scrutarne la parte più interna e misteriosa ed è solo la sua trasparenza che ti dà questa possibilità».
Allusioni sensuali? Peut-être.
Ma l’intimità raggiunta da Livio Seguso, scultore muranese classe 1930, con quella magica alchimia di sabbia e fuoco chiamata vetro è assoluta.
Ne conosce ogni segreto, ogni bizzarria, ogni sfumatura, ne intuisce le forme possibili o impossibili per le logiche regole fisiche e di gravità, ne carpisce i guizzi più profondi imprigionandone la luce secondo i suoi progetti geometrici.
Seguso «pensa in vetro» già dalla idea primigenia, da quel lampo che dalla sua mente diventerà una scultura, sapendo in anticipo come si evolverà la massa incandescente, quali saranno le vie da seguire.
Un approccio all’arte del vetro da artifex dal sapore rinascimentale, senza mediazioni di mani esterne.
In lui il pensiero diventa movimento del corpo e delle mani, indurite e levigate dal caldo dei ferri di fornace ma incredibilmente capaci di sensibilità infinitesimali nel plasmare per poi concludere lisciando e lucidando vetro, marmo, granito e legno sì da renderli morbidi, a dispetto della loro intrinseca durezza.
E questa capacità di 'mestiere' è stata la base della sua ricerca artistica, iniziata come tutti con il figurativo per poi giungere alla consapevolezza di una identità personale ed originale.
E’ con la luce che Seguso costruisce le sue sculture per giungere all’assoluta purezza formale, come nelle opere degli anni ’80, «col grande gioco dello spazio e della luce - scriveva Pierre Restany - con l’uso della trasparenza del vetro come pratica quasi ironica di un gioco ottico senza fine».
Ecco allora Vortice, Infinito, Spazio ideale: sfere e dischi in cristallo trasparente nati per acchiappare la luce in tutte le sue forme e rigenerarla, diversa ogni attimo, in una sorta di caleidoscopio virtuale.
Alla fine di quel decennio per Seguso arriva la svolta.
Il suo percorso, dall’origine alla forma, viene sottolineato da una parte dall’uso di marmi, di graniti e di pietre che diventano involucro della sfera di cristallo e dall’altra la precisione del vetro in diverse densità luminose.
Le pietre e il cristallo formano entità strutturali diverse e nascono le connessioni ideali, con una contrapposizione controllata del marmo bianco e del vetro bluastro, o le compenetrazioni, una serie di invenzioni complesse, dalla perfezione formale assoluta.
Ma la ricerca di Seguso continua.
L’ultima sua scoperta è il legno, con le sue vene lasciate volutamente in vista seppure controllate da una rigorosa geometria.
Ma il legno convive, ancora una volta, con il vetro, «materiale - afferma - che sembra nascere dal mare per vivere nell’aria, che affascina e accende la fantasia».