martedì 2 settembre 2014

Caravaggio: genio, pettegolezzi e tormenti dell'anima


Caravaggio
Davide con la testa di Golia, particolare
1609/1610 - Roma, Galleria Borghese
Era dannato e lo sapeva benissimo, a tal punto che dipinse la sua faccia allucinata nella testa mozzata di Golia.
Ma non era solo dannato.
Era un genio.
Un genio dagli occhi e dai capelli foschi che sconvolse quella Roma della Controriforma strangolata dall’Inquisizione. E la sconvolse non perché sembrava uno sgherro più che un pittore, non perché era sempre pronto a far baruffa, non perché andava a letto vestito col pugnale in fianco e non si separava mai dalla sua spada che adoperava quanto i pennelli e non perché frequentava puttane e furfanti, ma perché stravolse buttandola a gambe all’aria quella pittura stereotipata così cara all’Accademia di San Luca, perché fu l’inventore della natura morta italiana fino ad allora appannaggio assoluto dei fiamminghi, perché colse nella luce e nelle ombre una forza inimmaginabile, perché mise in discussione l’iconografia classica, perché ripudiò il bello ideale per affermare il dramma dell’esistenza e della morte, dell’angoscia, della solitudine e della salvezza eterna.
Non serve il tarlo del pettegolezzo becero che spesso racconta del suo primo maestro Peterzano come un pedofilo che lo insidia, tralasciando che fu lui a insegnargli la forza del colore imparata a sua volta da Tiziano.
Non serve parlare dei baci e delle carezze con ragazzi o prostitute senza citare l’ambiente colto del palazzo del cardinal del Monte che lo vide amico del poeta Giovan Battista Marino.
Non serve bisbigliare del suo infilare una rosa nei capelli del suo modello omosessuale per ritrarlo nel Ragazzo morso dal ramarro senza dire che nell’insidia dei sensi rappresentata da quella rosa si nasconde la morte. 
Caravaggio - Giuditta e Oloferne - 1599
Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica
 

Di quel ragazzo piovuto dalle nebbie del Nord nella Roma papale si spettegola di duelli e risse ma poco si discute del conflitto interiore che lo vide dilaniato tra la forza della fede e una vita da peccatore.
Ci si scandalizza nel vedere una prostituta far da modella per la Giuditta ma non sempre si fa capire che quel quadro inaugurò con la teatrale violenza del gesto, drammaticamente sottolineato dalla luce, la sua poetica dell’orrore su cui ritornerà spesso negli anni a venire.
Si tramanda la vicenda del trasporto di un cadavere fetido e puzzolente come fosse una stramberia degna di un folle, senza magari degnarsi di andare oltre a capire che quel morto era l’inconsapevole modello per seguire alla lettera le parole del Vangelo che raccontavano di Lazzaro.
Caravaggio - Morte della Vergine
1605/1606
Parigi, Museo del Louvre
Si spettegola ancora sulla ragazza affogata nel Tevere distesa tra le candele e poi ritratta con il ventre gonfio nella Morte della Vergine, ma poco si fa cenno al tema del pianto già presente nella deposizione al sepolcro tutto volto ad esprimere l’umana realtà di un dolore non ancora trasfigurato dalla Grazia.
Si raccontano sangue e omicidi, ubriacature e feste con femmine poco aristocratiche.
Poco importa.
Al di là di pettegolezzi quasi fosse un personaggio da copertina di giornaletti scandalistici, di Caravaggio rimarrà la gloria sempiterna, il suo essere genio al di là delle convenzioni accademiche e delle persone ‘per bene’.
 
 
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