martedì 7 ottobre 2014

Quel giorno a Lepanto



ANDREA VICENTINO - BATTAGLIA DI LEPANTO
«La mayor jornada que vieron los siglos», la più grande giornata che videro i secoli: così Cervantes definì sinteticamente la battaglia di Lepanto e tramanderà quell’epica impresa nel suo Don Chisciotte.         
Il 7 ottobre 1571 trecento navi della Lega Santa - la coalizione costituita il 20 maggio 1571, sotto il dogado di Alvise Mocenigo, per volere del Papa Pio V fra la Spagna, Venezia e gli Stati Pontifici - affrontarono vittoriosamente le forze navali turche al largo di Lepanto.
Morirono circa 30 mila uomini, di cui 5 mila veneziani.
Da quella battaglia dipese il destino dell’Occidente: il Mediterraneo fu liberato dalla presenza dell’Islam e l’Europa evitò di cadere sotto il dominio degli Ottomani.
Con la Lega, Venezia cercherà di proteggere il suo impero coloniale, fonte massima delle sue ricchezze, cosciente di adempiere anche ad una missione di difesa della cristianità contro un nemico implacabile e feroce.
La miccia che fece scoppiare questo nuovo capitolo della storia della Serenissima fu la dichiarazione di guerra che la Turchia fece a Venezia agli inizi del 1570 per la contesa su Cipro, dal 1489 possesso di Venezia.
Il prologo di Lepanto fu la caduta di Famagosta nell’agosto 1571, che finì col supplizio inferto dai turchi al governatore di Cipro Marcantonio Bragadin, che finì scorticato vivo.
Il 5 ottobre un brigantino proveniente da Candia portò la notizia che l’isola era caduta in mano turca e la fine che avevano fatto Bragadin e i suoi uomini.
La notizia corse da una nave all’altra, suscitando in tutti i veneziani una furia selvaggia.
I Turchi avevano dimostrato di essere nemici di Dio: la loro crudele politica aveva risvegliato anche negli animi più pacifici la voglia di distruggerli.
Da Messina più di 200 galee si mossero verso sud; ogni cristiano, libero o galeotto, ricevette un rosario.
Dall’Arsenale i veneziani portarono un’arma inconsueta: sei galeazze che montavano ciascuna 40 o più cannoni pesanti. Questa nave era sgraziata, poco manovrabile, ma era un mostro dotato di una enorme potenza di fuoco.
Il 7 ottobre 1571 era domenica e quel giorno la messa per la flotta fu celebrata con particolare solennità. Poi, da galea a galea, corse un mormorio: gli Infedeli erano in vista!
La flotta cristiana aveva una formazione a croce, tale da favorire la superiorità di fuoco contro la lunga formazione a mezzaluna, simbolica anch’essa, dei turchi.
Il fianco sinistro era al comando di Agostino Barbarigo, quello opposto era occupato dalle navi con a capo il genovese Gianandrea Doria.
Davanti all’ala veneziana erano appostate le due galeazze comandate da Antonio ed Ambrogio Bragadin, cupamente in attesa di vendetta. Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II Re di Spagna, a bordo dell’ammiraglia Real, comandava le 64 galee al centro.

JACOPO TINTORETTO
SEBASTIANO VENIER - PARTICOLARE
A fianco c’era il comandante in capo veneziano, Sebastiano Venier, sull’ammiraglia pontificia l’aristocratico romano Marcantonio Colonna.
La flotta ottomana contava 274 navi da guerra: al centro stava il grande ammiraglio Alì Pascià, a bordo della Sultana; la sinistra era affidata a Uluds Alì, Occhi Alì; la destra sotto Mohammed Saulak, Maometto Scirocco.
Il primo sparo partì da Don Giovanni che puntò dritto verso Alì, quasi fosse una sfida personale.
La Real e la Sultana avanzavano implacabilmente l’una verso l’altra, e lo sperone della Sultana penetrò nella Real: i turchi si lanciarono sulla nave ma furono trattenuti da un ostacolo che non conoscevano: le reti anti-arrembaggio.
La battaglia si combatté sulla coperta della nave di Alì: 800 uomini si contrastarono e dopo aspri duelli, Alì fu colpito alla fronte da una pallottola di archibugio.
ALI' PASCIA'
Al posto del vessillo verde dell’Islam fu issata la bandiera pontificia e nella stiva della Sultana fu scoperto il tesoro di Alì: 150.000 zecchini d’oro!
Altre navi turche cercarono di oltrepassare la flotta cristiana alle due estremità per prenderla alle spalle.
Il Barbarigo resistette e, sebbene cadesse mortalmente ferito, la manovra turca venne respinta.
Il Doria si allargò troppo per non essere circondato, dando modo ai turchi di penetrare nelle linee cristiane, anche qui i turchi furono costretti a ritirarsi, ma il genovese non fece per nulla una bella figura.
Alle 4 del pomeriggio la battaglia era terminata: la vittoria cristiana fu grande e completa, anche se non fu sfruttata appieno e non recò vantaggi concreti ai membri della Lega per i dissensi tra Venezia e Spagna.
La Serenissima stipulò nel 1573 una pace separata coi turchi, ai quali rimase il possesso di Cipro.

Tuttavia Lepanto segnò un momento decisivo di arresto per l’espansione musulmana e l’inizio della ripresa cristiana.
Per 70 anni neppure una volta i turchi osarono attaccare la Repubblica e, scomparsa la paura, Venezia non sentì più il bisogno di alleati.

domenica 5 ottobre 2014

La guerra, vinta, di Tiziano

TIZIANO - APOLLO E MARSIA
Ha ormai quasi novantanni, eppure il grande vecchio della pittura italiana riesce a dare il meglio di sé. L’ultima opera, la Pietà, non riesce neanche a finirla - ci penserà poi Palma il Giovane a farlo, dipingendo gli angeli reggicero – perché la peste se lo porta via.
Ma cosa ha lasciato Tiziano in eredità che così tanto ci emoziona?
Provate a fare un gioco, una sorta di guerra surreale con protagonisti il Disegno, il Tempo e il Colore.
Pensate di trovare davanti a voi una grande tela, con un poveretto – scoprirete poi che si chiamava Marsia, che perse una gara di flauto con Apollo e che subì una punizione simile a un sacrificio umano – contorto dal dolore mentre lo stanno scuoiando.
Fermatevi, non potete fare altro.
Un groppo in gola e un aggrovigliamento di stomaco ve lo impediscono.
Siete spettatori privilegiati di un conflitto dal sapore rivoluzionario, di una lotta fra titani decisa da quel divin pittore che scese dai monti del Cadore per cambiare il corso della storia della pittura.
Ascoltate le voci di quella pittura.
Sentirete un fragore, urla, strepiti, come nel bel mezzo di una battaglia.

Un miscuglio di colori urlanti vi appare sullo sfondo, mentre lacca rossa, biacca, nero e le tinte dell’incarnato delle figure di destra – un satiro, un bambino, un cane – si sciolgono mescolandosi indissolubilmente fra di loro, come nel velo di Apollo che sta a sinistra – azzurro polvere, viola, lacca rossa – o nel corpo martoriato di Marsia – rosso, verde, grigio, beige – che troneggia disperatamente al centro.

TIZIANO - TARQUINIO E LUCREZIA
È lì, il momento topico, la madre di tutte le battaglie. 
Il Disegno, che ha cercato disperatamente di difendersi con tutte le sue forze che lo davano da sempre come il principale e indispensabile ingrediente della pittura, ormai privo di forze, soccombe, steso dal Colore che a sua volta ingaggia un’altra terribile battaglia contro qualcosa di assolutamente ineffabile: il Tempo.
Guardate e ascoltate.
L’un contro l’altro armati ecco il duello all’ultimo sangue tra un grande vecchio, forte della sua genialità, e il secolo d’oro della pittura, che gli sta così stretto da soffocarlo.
Ed eccolo Tiziano, ormai stanco, malato e con la vista malandata, sconfiggere il Tempo e catapultarsi tre secoli in avanti.

Par quasi di vederlo, col suo pastrano antico, la sua barba lunga, il suo sguardo fiero e indagatore, aggirarsi per Montmartre, guardare quei giovani dai nomi strani che si facevano chiamare Impressionisti.

TIZIANO - PIETA'
Chiudete gli occhi.
Immaginatelo, mentre rivendica con orgoglio la paternità di quel nuovo modo di far pittura lontano dalla prassi accademica, di quelle pennellate sfatte, di quel colore steso con le dita, di quei colori mischiati.
Immaginatelo che racconta a uno dei tanti bohémien che si credono innovatori, come si inventò quella biacca mescolata all’arancio, al nero e al blu per dare una forma alla disperazione tutta umana della Maddalena nella Pietà, o quelle labbra rosse di Maria, così sfatte per le troppe lacrime che solo una madre sa versare per il proprio figlio o le macchie con cui magicamente insieme aveva formato il corpo morto di Cristo.
O ancora come riuscì, lottando a mani nude contro i margini ben delineati, a dare così forza a Tarquinio, vestito di arancio, lacche, biacca, nero e marrone mentre pugnala una terrorizzata Lucrezia, col colore candido della veste che si scioglie nella carne tremante, quasi fosse una ballerina di Degas impegnata nella tragica danza della Morte.
E ora rilassatevi, la guerra è finita, vinta da un uomo vecchio, che con il pensiero già toccava la morte, con la sola arma del suo Colore, trapassando il Tempo e il Disegno con la spada della sua imperitura gloria. 

 

sabato 4 ottobre 2014

Archimede Seguso, il vetro nel sangue



Un patrimonio ritrovato, riemerso dalla polvere dei magazzini e dalle carte degli avvocati: sono le migliaia di vetri che Archimede Seguso ha creato durante la sua lunghissima vita di straordinario maestro vetraio.
Il più grande del secolo, il maestro dei maestri, mai imitato perché impossibile per chiunque dar vita a sabbia e fuoco come solo lui sapeva fare.
Ed eccoli i vetri, lucenti o patinati, nel salone al primo piano della storica fabbrica di fondamenta Serenella a Murano, in bella mostra sui ripiani, orgogliosamente sistemati dal figlio Gino, che dopo una lunga battaglia legale con il fratello, è diventato l’unico proprietario di un patrimonio, che oltre ad un valore economico sicuramente con parecchi zeri, testimonia l’evoluzione delle mode, del gusto e dell’arte di quasi un secolo.
«E’ un doveroso omaggio che rendo a mio padre - dice Gino - e prima di decidere quale sarà la sede più adatta del museo «Archimede Seguso», voglio poterli mostrare agli amici e ai suoi estimatori».
Già, il museo.
Dovrebbe, a rigor di logica, rimanere a Venezia, ma la città non ha  ancora risposto all’appello, anche se lontano dalla laguna ai vetri di Archimede mancherebbe la loro storia e forse una parte di fascino svanirebbe nel nulla.
Forse la città sull’acqua ha altre cose a cui pensare: le grandi navi, il turismo di massa, i matrimoni hollywoodiani e quindi un patrimonio fondamentale per la sua storia come quello di Archimede non gli interessa. Misteri della politica.
Eppure Archimede era un uomo indimenticabile, che quando morì a novant’anni, il sei settembre del 1999, lasciò il mondo terreno dicendo: «Vado in cielo, così potrò fare i lampadari per illuminare il Paradiso».
Lui il vetro l’aveva nel sangue, l’intera famiglia da generazioni lavorava a Murano e Archimede iniziò giovanissimo e forgia la sua straordinaria manualità rifacendo vetri settecenteschi.
Abilissimo nel lavoro a lume e in fornace, poco più che ventenne diventa un espertissimo maestro, distinguendosi anche con la nuovissima lavorazione del vetro pesante.
Rompe infatti con la tradizione che vuole il vetro leggerissimo e soffiato: inventa vasi, sculture e animali in vetro massiccio, scolpiti con una paletta incandescente.
E’ il 1934 quando Archimede ritrae in vetro massiccio Primo Carnera diventato campione del mondo dei pesi massimi, coi suoi guantoni immensi simbolo di forza e le spalle possenti.
Sono del 1937 i primi vasi a conchiglia iridescenti, gli orsi in vetro pulegoso, realizzati con una tecnica nuova: nel crogiolo viene mescolata una patata che emana gas che fa bollire il vetro e nascono le bollicine, in veneziano puleghe, che creano effetti ottici incredibili.
Passano pochi anni, siamo ormai nel pieno dell’art déco, ed ecco i servizi da toilette che sembrano fatti apposta per l’epoca dei “telefoni bianchi”, i servizi da fumo o i completi per il rosolio.
Il 10 ottobre del 1948 Archimede decide che è arrivato il momento giusto per mettersi in proprio e costruisce la «sua» fornace: un capannone alto, con grandi finestre e un’apertura nel tetto per far circolare l’aria sì che sia sempre fresco anche in estate, con grandi alberi nel giardino a fianco, tra cui spicca un gigantesco nespolo.
Amava quella massa informe e rovente fatta di sabbia: «Per me il vetro è come una caramella, più si succhia e più si sente il dolce».
E dolci sono le sculture di donne dalle forme abbandonate degli anni ’50, morbide e formose, così diverse da quelle affusolate degli anni ’70.
Nelle sue opere c’è l’intera gamma cromatica, dai raffinatissimi vasi ametista che paiono merletti ai vasi bianchi e neri con decori a zig-zag, dai vetri «a cipolla» lilla realizzati con più di novanta sovrapposizioni di vetri opalescenti ai vasi rossi o blu ispirati all’incendio della Fenice del ’96.
E la sua storia, immortale e leggendaria come per tutti i miti, continua.