giovedì 11 settembre 2014

Manet e i suoi quadri scandalosi

 
Eduard Manet - Le dèjeuner sr l'herbe - 1863 - Parigi, Museo d'Orsay
Le dèjeuner sur l’herbe, esposto al Salon des Refusès del 1863 col titolo Le bain, punto di approdo di anni molto intensi, fu dipinto in atelier, secondo una pratica costante di Manet, e, oltre al fratello e al futuro cognato, posò la sua modella preferita Victorine Meurent.
Lo scandalo suscitato dal dipinto non era motivato dal soggetto in sé ma dal suo “trattamento volgare e provocatorio”.
Non si tratta infatti di un nudo accademico, ma di un ritratto di donna nuda, anzi, che si è spogliata. E all'epoca non stava per niente bene, specie se davanti a tutti.
Chiaramente è poi riconoscibile la modella e il suo sguardo, puntato senza reticenza sullo spettatore attirato così in un ambiguo rapporto di complicità, che risultava al pubblico benpensante dell’epoca ancor più indecente della nudità esibita.
E ancora la sollecitazione sensuale della stupefacente natura morta che ai resti del pic-nic aggiunge le vesti abbandonate della donna: la conferma che proprio lì si era tolta i veli.
Due anni dopo Manet presenta al Salon la tela con Olympia, che provocò uno scandalo ancora maggiore del Dejeuner.
Un giornalista del tempo riferisce che la gente si affollava davanti al nudo con la “stessa morbosa curiosità con cui si va a osservare un cadavere all’obitorio”.
Eduard Monet - Olympia - 1865 - Parigi, Museo d'Orsay
Olympia, una Venere caduta da un improbabile Olimpo e rivisitata dal capolavoro di Tiziano. Esibisce sì freddamente le sue carni nude a prezzo fisso ma è anche esemplare per la sua sincera antiretorica e smitizzante, per l’audace linguaggio con cui Manet semplifica le forme e schiaccia il modello attraverso piatte stesure di colore, riuscendo a evidenziare i volumi mediante l’equilibrata composizione delle parti chiare e scure.
Al Salon si levarono gli scudi contro la giovane stesa sul letto, ma con lei Manet inventò il nudo moderno.

mercoledì 10 settembre 2014

Canaletto e la sua Venezia

Canaletto - La riva degli Schiavoni verso est con la colonna di San Marco
1730 - Milano, Castello Sforzesco
E’ preciso nei particolari ma non è fedele al vero, con quelle ombre scure, la pennellata grassa, densa di colore, talvolta sfrangiata, con il gusto compositivo delle diagonali ancora così scenografico e con i rapporti cromatici rivolti a un’evocazione fantastica.
Con un senso quasi fiammingo di realismo, Canaletto non smette mai di interessarsi alle cose di Venezia: la posa di un gondoliere, una figura in maschera, il lampo della luce su uno scalino, le tegole di un tetto, una statua che si staglia, bianca, contro un cielo azzurro e frizzante.
Un’immagine simbolo come La riva degli Schiavoni verso est con la colonna di San Marco, proveniente dalla Civica Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano dipinta nel 1730, è tutto questo e anche di più.
La totale trasparenza dell’aria rende reale lo spazio come lo intendeva Newton – sempre omogeneo e immobile – e in quello spazio gli edifici, Palazzo Ducale in primis, sono blocchi netti, privi di interferenze reciproche, coerenti, ubbidiscono a un ideale cristallino. E quanto lontano arriva lo sguardo, il dettaglio si offre incontaminato nella sua leggibilità, quale che sia la distanza dell’osservatore.
E l’acqua, icona ineludibile di Venezia? Si dà uniformemente, con l’invenzione di un segno iterativo – inimitabile nel suo carattere ingannevolmente meccanico – con il movimento magicamente fermato, tanto che le barche non lasciano nessuna scia.
Un’immagine piena di aria e di luce, dove il cielo è veramente cielo e dove le nuvole non chiudono l’orizzonte ma ne dilatano ancor di più la vastità, dove interviene la sua fantasia, il suo particolare gusto della materia, il suo senso architettonico e compositivo, la sua visione del mondo.
La luce splendente e le ombre marcate modellano gli edifici, creando l’illusione, al di là di quella precisa veduta, di guardare nella città che si avverte molto più estesa, dietro un angolo, dietro l’ultima facciata, dietro  i campanili. Non si osservano solo marmi, mattoni o calce, ma la vita stessa, che si sente procedere con serena imperturbabilità.
Altro che fotografo!
La camera ottica gli serviva sì, ma le sue vedute sono delle “belle infedeli”, permeate di quello spirito tutto veneziano così amato dagli inglesi, ma che mai sarebbero stati capaci di trovarne traccia in quei guizzi di colore che per incanto diventavano due belle fanciulle intente a parlare magari del loro nuovo amore o di quei due ragazzini che fan baruffa intorcolati come matasse di filo da pesca.
Quella di Canaletto era la stessa Venezia di Casanova, scandalosa e viva, libera e libertina, tanto da far scrivere a Lord Byron “che una signora che abbia un solo amante non può essere accusata di violare la santità del matrimonio”.
La stessa Venezia fatta dal patriziato, dai mercanti, avvocati e notai, letterati e artigiani ma anche la Venezia del popolo dei poveri, dei servi e dei barcaroli, delle prostitute e dei mendicanti che si mescolavano con gente di ogni razza, lingua e religione e che ne facevano una città cosmopolita e vivissima.

martedì 9 settembre 2014

Le due biografie di Francisco Goya

 
Francisco Goya - Autoritratto
Madrid, Museo del Prado - 1815
Si potrebbero scrivere due biografie di Francisco Goya y Lucientes.
Delineare con una il pittore arrivista, affascinato dal potere e da chi lo esercita, voltagabbana, parvenu prima e arrogante accademico poi, con l’altra invece tratteggiare la figura di un uomo insofferente alle convenzioni e ai dettami culturali in voga, un artista dalla continua ricerca della verità e del modo con cui esprimerla, liberale, censore di nobili e potenti, ritrattista spietato di una classe dirigente corrotta.
Qual era allora il vero Goya?
L’uomo che tocca il cielo con un dito quando il re Carlo IV si esibisce per lui in un assolo di violino quale segno di ammirazione per la sua arte o il pittore che firma un ritratto della famiglia reale dove il volto imbambolato del re e i suoi occhi spenti fanno da pendant al profilo da rospo della regina?
Un quesito che pare di difficile risoluzione ma che trova invece la sua semplice risposta nel susseguirsi degli avvenimenti della vita del grande pittore spagnolo.

Francisco Goya - Ritratto della famiglia reale - Madrid, Museo del Prado
Goya si portò appresso per molto tempo non solo la paura della miseria che aveva lasciato a Fuendetodos, piccolo paese di campagna dove era nato il 30 marzo 1746, ma anche il ricordo delle umiliazioni come la duplice bocciatura all’Accademia e delle difficoltà dei primi passi nel mondo artistico madrileno, riuscendo a liberarsene solo via via che la sua posizione si faceva più solida, da accademico di San Fernando a pittore del re, e acquistando sicurezza di sé.
Avvenimenti che nel 1792 gli fanno vedere la morte in faccia per una malattia che lo renderà quasi sordo o l’innamoramento per la giovane, lui quasi cinquantenne e sposato, Maria Teresa del Pilar, Duchessa d’Alba, che “non aveva un solo capello in testa che non ecciti il desiderio”.
L’amore per la nobildonna lo rende attivo e creatore di una serie incredibile di ritratti oltre ai Capricci, una serie di acqueforti in cui, lasciando libero sfogo al suo genio e alla sua fantasia, satireggia i costumi, sferza la nobiltà, il clero e perfino il Tribunale dell’Inquisizione.
È il 1802 e Maria Teresa muore.
La sua fine improvvisa scava un vuoto insopportabile nella vita di Goya.
Francisco Goya - Maya desnuda - 1805 - Madrid, Museo del Prado
Si riprende e nel 1805 dipinge la Maja desnuda e la Maja vestida, quadri mitici dall’aureola scandalistica per il legame con la duchessa, anche se non è lei la donna ritratta. Esecuzione tersa e nitida per la figura nuda e ideale, trasparenza e finezza dei tessuti in un delicatissimo gioco di luce e sfumature per quella vestita.
Ma nel 1808 la guerra d’Indipendenza contro l’invasione napoleonica segna una nuova svolta nella sua vita.
Francisco Goya - Il tre maggio 1808 - Madrid, Museo del Prado
Ne Il tre maggio 1808 poca gloria e molta angoscia: ciò che Goya evidenzia è l’effetto nefasto della guerra nell’essere umano e non il suo lato eroico o cavalleresco, esagerando i contrasti, deformando i lineamenti, rinunciando ad ogni perfezione per dare al quadro tutta l’intensità che richiede la sua tremenda carica emozionale.
Francisco Goya - Le pitture nere - Madrid, Museo del Prado
Anziano e malato dipinge a olio sui muri di casa sua a Manzanarre le Pitture nere, impressionanti e angoscianti come le visioni di un delirio in cui sfugge ancora il vero significato, quasi che quegli esseri mostruosi fossero i fantasmi del suo mondo interiore, plasmati con una tecnica senza precedenti. 
È il 16 aprile 1828, muore a 82 anni a Bordeaux, dove viveva con la giovanissima Leocedia e Maria Rosario, Rosarito, nata nel 1814 dalla loro relazione .