lunedì 3 novembre 2014

Canaletto, l'apice dle vedutismo

CANALETTO - PIAZZA SAN MARCO
Canaletto è una specie di intoppo nella pittura veneziana del Settecento.
Tiepolo e Guardi sono nella ruota giusta del Tempo, seguono il destino della loro splendida città che va verso il suo disfacimento, disgrazia che capita spesso alla generalità delle cose umane. 
CANALETTO 
 IL BUCINTORO AL MOLO NEL GIORNO DELL'ASCENSIONE
Guardi percepì la grandezza occulta di questa disgrazia, l’oscuro piacere che può dare il male e il senso della fine e lo espresse con le vedute di una città che porta in sé il germe della morte.
Canaletto, nato appena quindici anni prima del Guardi, si trova contro il Tempo: nelle sue vedute e nelle sue scene cristallizza Venezia e i veneziani in una verità ferma, immune da decadenza o disfacimento, destinata a durare per sempre.
Sublima la sua città dilatandola in dimensioni fantastiche e tuttavia non irreali.
Giunge a conquiste nel campo della luce e della prospettiva atmosferica, arrivando a soffi di poesia personalissima.
Sembra un personaggio semplice ma oggi lo si definirebbe un alienato.
La sua carriera era cominciata grandiosamente con un atto di rivolta verso il padre, che l’aveva messo a tirar la carretta al proprio seguito facendogli fare scenografie per opere e drammi.
A ventidue anni, era il 1719, “annojato dalla indiscretezza de’ poeti drammatici, scomunicò solennemente il teatro” se ne andò a Roma.
Torna a Venezia dopo un anno o due e si mette a dipingere Piazza San Marco e il Canal Grande, con un certo nervosismo prima, poi sempre più pacatamente come forse piaceva agli inglesi.
Già, perché se Venezia è un polo della sua esistenza, l’altro è l’Inghilterra, entrambe croce e delizia della sua vita.
Doveva sicuramente amare Venezia, altrimenti non avrebbe potuto ritrarla come l’ha ritratta, ma al tempo stesso coltivava l’orgoglio di dipingere per lontani milord pieni di ghinee, ma che con molta probabilità odiava perché di ghinee a lui ne arrivavano pochine, essendoci di mezzo l’intermediario.
CANALETTO -
ABBAZIA DI WESTMINSTER
Comunque, se metteva in conto anche la soddisfazione di essere apprezzato dagli aristocratici inglesi, fu molto ripagato.
Il gruppo più cospicuo delle sue opere fu venduto nel 1763 al re Giorgio III e, ancor oggi, se se ne stampa la riproduzione di qualcuna, viene scritto che ciò accade per la cortesia di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.
La sana risonanza della sua fama di essere avido di denaro, gliela hanno fatta naturalmente quelli che acquistavano i suoi quadri e avrebbero voluti pagarli meno di quanto in realtà sborsavano.
Che Canaletto, ritraendo Venezia per lungo e per largo, tenesse anche un occhio al mercato, è lecito supporlo.
Aveva un carattere difficile e faceva prezzi a capriccio, seguendo impulsi di simpatia e antipatia: gli inglesi gli andavano a genio, i francesi no.
CANALETTO - BACINO DI SAN MARCO
La conferma di essere un artista vero l’aveva dal mercato, ma oscillava paurosamente tra il senso d’inferiorità di essere un pittore di vedute – il cui compito consisteva nel riprodurre gradevolmente i siti gradevoli in modo che chi li aveva visti potesse averne un ricordo positivo e chi non li aveva visti ricavarne dilettosa cognizione – e senso di superiorità ritenendosi il migliore.
Così fabbrica come un forsennato quadri su quadri, infilandosi dentro la camera oscura a copiare la realtà capovolta o con il processo quasi meccanico della quadratura che ben conosceva perché usato comunemente dagli scenografi.
Finì la sua carriera da accademico, visse senza moglie e morì senza testamento.
Fu sepolto a Venezia nella chiesa di San Lio, ma della sua tomba si è persa ogni traccia.

lunedì 27 ottobre 2014

Paul Gauguin. Te Tamari No Atua: la sacralità dell'amore


PAUL GAUGUIN - TE TAMARI NO ATUA - 1896
Con Te Tamari No Atua – la nascita di Cristo figlio di Dio – dipinto nel 1896, Gauguin vuole dare visivamente il senso dell’innocenza e dell’integra morale degli indigeni, la cui sessualità non repressa, immune da complessi di colpa, porta alla rivelazione della profonda sacralità dell’amore.
I fantasmi erotici che pervadono il sonno della ragazza si materializzano nell’immagine di una Santa Famiglia indigena con, accanto alla figurazione cristiana, i simboli di un paganesimo primitivo evocati dal palo dipinto che allude alla continuità, all’unità del sacro.
Non c’è simbolo né allegoria: la Santa Famiglia non appare tra le nuvole, ma è lì, accanto al letto, la stalla con i buoi è un elemento dell’iconografia tradizionale del presepio ma è anche un elemento a sé, che allude alla legge naturale e divina dell’amore tra gli esseri viventi.
Certo Gauguin ha veduto e rammenta la ragazza dormiente, ma è nella memoria che si svela il senso di ciò che ha veduto.
Allora tutto prende significato: la figura sola nel letto nuziale, il suo composto abbandono, la coperta gialla che diventa un alone di luce intorno al corpo bruno, i quadri sulla parete che prendono vita.
E poiché l’immagine occupa uno spazio e un tempo interiori, non possono esservi effetti di luce e la luce emana dalle cose stesse, come dal contrasto del corpo olivastro e della veste turchina col giallo chiaro del letto.
Blu e giallo sono colori complementari, sommati danno il verde e verdi sono le ombre della coperta, verdi e blu i colori dominanti del fondo.
Non è l’istante fermato né il tempo che scorre: è un tempo remoto e profondo su cui l’immagine del presente si adagia come una ninfea sull’acqua ferma.

sabato 25 ottobre 2014

Edward Munch: l'angoscia di vivere

MUNCH - AUTORITRATTO ALL'INFERNO
Non si può dipingere eternamente donne che sferruzzano e uomini che leggono. Voglio rappresentare esseri che respirano, sentono, amano e soffrono. Lo spettatore deve prendere coscienza di quel che c’è di sacro in noi, di modo che si scoprirà davanti a loro, come in chiesa”.
Eccolo il pensiero di Edward Munch, che intende rappresentare i sentimenti e comunicarli, così come gli impressionisti sentivano la necessità di rappresentare la luce.
È questa la sua rivoluzione: sostituire alla rappresentazione delle cose materiali quella di entità non rappresentabili.
Proveniente da una Scandinavia in crisi – dove Kirkegaard è guida intellettuale – Munch, che era nato a Løten nel 1863, giunge a Parigi. 
MUNCH - LA MALINCONIA - 1894
Dagli inizi degli anni ’90 Edward dividerà il suo tempo fra il suo paese natale, la Norvegia, Parigi e la Germania, luoghi in cui da appassionato studente si trasformerà in precursore.
Passaggio decisivo per l’influenza di Munch sulla nuova pittura tedesca fu la sua mostra berlinese del 1892, che per la scandalosa maniera pittorica e i soggetti inquietanti e trasgressivi rispetto alla morale e al modo di pensare correnti, divise il mondo artistico della capitale prussiana.  
I titoli dei suoi quadri – come L’urlo, a proposito del quale scrisse “sento il grido della Natura”, Pubertà, La Vampira, Malinconia, La morte in camera – indicano piuttosto chiaramente una tematica morbosa che unisce l’angoscia della morte alla sessualità.
MUNCH - IL FREGIO DELLA VITA, LA DANZA DELLA VITA
Nella capitale tedesca, vivendo in solitudine e senza vita sociale, intraprende  Il fregio della vita, opera alla quale afferma di aver lavorato per trent’anni, che concepisce come una serie di immagini legate soltanto dal contenuto.
Per lui l'esistenza non è altro che dolore e morte e per drammatizzare i suoi quadri, utilizzerà sempre il procedimento del primo piano molto frontalizzato che si staglia su uno sfondo prospettico, disposizione spaziale che avrà come conseguenza quella di sopprimere l’illusione della profondità che invece il reticolo prospettico della tela sembrerebbe creare.
L’impiego di grosse linee colorate, che delimitano campiture uniformi, la divisione delle superfici in fasce di colore, che confondono l’articolazione del piano e i suoi limiti, costituiranno un punto di partenza per la ricerca sulla funzione di chiusura della linea. 
MUNCH - L'URLO - 1885
Le incisioni su legno per le quali Munch è forse ancor più celebre che per i suoi quadri, unendo la frontalità spaziale a uno studio sulle trame del supporto e mettendo a confronto la superficie colorata con il bianco del contorno non inchiostrato, rimangono opere fondamentali e operano un mutamento radicale nell’estetica dell’epoca.
L’incisione più famosa è senz’altro L’urlo, che ripete in varie versioni: qui Munch mira ad esprimere come un’emozione improvvisa possa trasformare tutte le nostre impressioni sensibili.
Tutte le linee paiono convergere verso l’unico centro della litografia, ossia la testa urlante ed è come se l’intera scena partecipasse all’angoscia e all’emozione di quel grido.
Il volto è deformato caricaturalmente, gli occhi fissi e le guance incavate ricordano un teschio.
Ormai famoso in tutta Europa, nel 1908 ha una crisi di depressione nervosa e resta per un anno in una clinica di Copenaghen: ne uscirà apparentemente più tranquillo ma la sua pittura continuerà a denunciare il suo tormento interiore.
Muore a Olso nel 1944.
E chi sa se è riuscito a trovare un po' di pace.