giovedì 25 settembre 2014

La pittura dorata di Gustav Klimt


IL BACIO - PARTICOLARE - 1908
Enfant prodige della pittura accademica di tardo Ottocento, leader indiscusso di un movimento di radicale ammodernamento, la Secessione Viennese che fonda nel 1897, Gustav Klimt, nasce nella capitale austriaca nel 1862 dove muore nel 1918 per infarto.
Artista estremamente colto e sensibile, timido e schivo, raffinato fino alla morbosità, pittore erotico di rara intensità, polemico e provocatorio, è legato ad una sua formula decorativa piena di implicazioni simboliche.
Figlio di un orafo, studiò alla scuola di arti e mestieri di Vienna, partecipando da giovanissimo a lavori decorativi.
Emblematico del suo stile d’oro è il Fregio di Beethoven del 1902.

FREGIO DI BEETHOVEN - 1902
Come molti del suo tempo, anche Klimt non si sottraeva alla grande passione viennese per la musica: 24 metri di pittura che mostrano un fiero cavaliere che attraverso la poesia guida l’umanità verso il superamento del dolore della vita e raggiunge la felicità nell’abbraccio amoroso.
Torna nel 1909 al soggetto già trattato in Giuditta I, complicandone la versione, ampliandone la dimensione e arricchendone l’ideazione.
In Giuditta II, nuova è l’iconografia, dove emerge una donna moderna, sensuale e tragica, abbigliata nel gusto Secessione con arabeschi e innesti geometrici.

GIUDITTA II - 1909
Nella Vienna di Freud era inevitabile che un artista si cimentasse con la complessità di un mito: ecco allora Giuditta trattenere spasmodicamente fra le dita la testa mozzata di Oloferne.
Così seduce doppiamente, con la straordinaria efficacia di una decorazione che è già astratta e con l’allusione a un erotismo indissolubilmente legato alla trasgressione. 
E Giuditta diviene emblema del potere di seduzione della donna.
La morte e la vita, ritoccata sostituendo l’oro dello sfondo con un blu intenso, un’ulteriore evoluzione nella sua arte che ora sfrutta anche le qualità espressive del colore che volteggia in un mondo onirico.
Disegnatore instancabile e di straordinaria finezza, Klimt fu autore di affascinanti ritratti come quello di Adele Bloch-Bauer e di opere paesaggistiche, nelle quali la ricchezza lussureggiante della vegetazione riempie l’intero spazio della tela. 
LA MORTE E LA VITA - 1911
Consapevole della lenta e ineluttabile morte del vecchio impero austro-ungarico, che ormai conserva solo il ricordo dell’originario splendore, sente profondamente il fascino di questo tramonto storico e associa l’idea dell’arte del bello a quella della decadenza, del dissolvimento del tutto, del precario sopravvivere della forma alla fine della sostanza.
Tocca, quasi senza volerlo, il punto nevralgico di una situazione ben più vasta, europea: l’arte è il prodotto di una civiltà ormai estinta e nella nuova civiltà industriale non può sopravvivere che come ricordo di sé stessa.

RITRATTO DI ADELE BLOCH-BAUER - 1907
Il suo pensiero va all’arte bizantina, splendida ed esangue, in cui si riflette un analogo processo storico, il declino di un impero e la sopravvivenza della forma estetica alla morte storica. In una propensione di ornati simbolici, del cui significato si è perduta anche la memoria, sviluppa i ritmi melodici di un linearismo che finisce sempre per ritornare al punto di partenza e richiudersi su sé stesso e li accompagna con le delicate, melanconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei, con morenti bagliori d’oro, d’argento, di smalti.

martedì 23 settembre 2014

Modigliani, l'artista maledetto

Amedeo Modigliani
AUTORITRATTO - 1919
Nell’assonanza fonetica con il soprannome francese di Modì, Amedeo Modigliani incarna la figura dell’artista maudit, maledetto, costantemente alla ricerca di una irraggiungibile forma espressiva soddisfacente. 
Amedeo Modigliani
TESTA DI DONNA
Figlio di un toscano di origini ebree e di una francese, nacque a Livorno il 12 luglio 1884 e dopo una formazione nelle accademie di Firenze e Venezia, avvolto dai fumi di droghe e alcol, nel 1906 si trasferisce a Montparnasse a Parigi.
Lì capisce subito che tutta l’arte moderna nasce da Cézanne, ma nei suoi confronti ha un limite idealistico: per Modì alla chiara intelligenza della verità non si giunge con l’intelletto ma con il sentimento. 
Uno dei suoi primi amici, lo scultore rumeno Brancusi, gli ispira il culto della forma pura e chiusa in cui la linea, da sola, plasma e definisce il volume.
Lo inizia alla scultura africana, un’esperienza che Modì trasporterà poi nella pittura, assumendo il colore non più come complemento ma come materia intrinseca della forma.

Amedeo Modigliani - 1917
DONNA CON CRAVATTA NERA
Nel 1917 incontra Jeanne, studentessa diciannovenne che per lui abbandona la famiglia. Per due anni si trasferiscono a Nizza per curare le sue crisi polmonari e lì nasce la loro bimba.
Tornano a Parigi e vivono nella miseria più nera, aiutati da qualche amico e dal ricavato di qualche quadro venduto a pochi franchi.
Nei suoi molti ritratti e nudi di donna, i contorni fortemente segnati saldano, in una sola superficie compatta, piani a profondità diverse, le varie parti della figura e i vari piani del fondo.
La linea talvolta è pesante come un solco nero scavato nella massa del colore, talvolta sottile, filiforme e il colore è ora denso, ora magro, ora modulato in tonalità tenui, ora intenso.
In lui non c’è la stesura cromatica dei Fauves, ma la scomposizione cubista, eppure perché non arriva alle estreme conseguenze, rimanendo nel tipo tradizionale del ritratto?
Perché per lui la pittura non deve essere analitica ma poesia: il linearismo è sottilmente intellettuale e intensamente espressivo, il colore è rigorosamente plastico.

Amedeo Modigliani - NUDO ROSSO - 1918
È la sua poesia raffinatissima ma appassionata, velata solo da una desolata malinconia.
L’inconfondibile allungamento delle figure – i suoi colli lunghi sono diventati proverbiali – esalta l’eleganza leggera e solitaria dei personaggi. 

Amedeo Modigliani
RITRATTO DI JEANNE 1918
Segue i contorni dei corpi femminili con l’ineguagliabile finezza del disegno di quattrocentesca matrice toscana, lasciando emergere una sensualità vera e palpitante.
Modì non ammette nei suoi ritratti sguardi che non siano assenti, introspettivi, il più possibile chiari e dolci. 
Dal ritratto di Elvira del 1916 a quello di Jeanne del 1918 fino al famoso Nudo rosso e all’Autoritratto del 1919, una delle sue ultime immagini corroso dalla salute malferma e dagli abusi di assenzio e altro, è sempre il medesimo atteggiamento di abbandono, il medesimo sguardo sperduto.
Nei personaggi di Modì l’aplombe non è perfetto: pencolano un po’ a destra o un po’ a sinistra, eppure la loro caratterizzazione è viva, inequivocabile.
Portato per natura a non legarsi a correnti o avanguardie, non fa scuola: resterà sempre un grande isolato.
Muore il 24 gennaio 1920, a soli trentasei anni.
Il giorno dopo la moglie Jeanne, disperata, si lancia dal terzo piano di casa.
Sono sepolti l'uno accanto all'altra nel cimitero del Père Lachaise di Parigi.

domenica 21 settembre 2014

Simone Martini, la luce del Medio Evo

SIENA NEL MEDIO EVO
Fate un gioco: immaginate di essere catapultati nel bel mezzo del Medioevo. 
La vita quotidiana scandita dal suono delle campane, le case e le botteghe illuminate dalle candele e dalle lampade a olio. Si mangia quel che si trova e si è fortunati se non si muore di peste.
Immaginate di essere a Siena all'inizio del Trecento e di vedere per le strade piene di giullari e predicatori in odore di stregoneria o di scomunica, un ragazzo, magari con i vestiti rammendati e un po’ sporchino, perché in quell’epoca ci si lavava ben poco, che va a pulir pennelli nella bottega di un pittore già affermato.
E’ lì, da Duccio di Boninsegna che quel ragazzo impara la pittura. Impara presto perché ha talento da vendere.  
A quel ragazzo, i senesi danno il tempo di impratichirsi e dopo qualche anno gli commissionano affreschi e dipinti per cui avrà gloria perenne nella storia, oltre al ringraziamento di noi comuni mortali del terzo millennio per il regalarci così tante emozioni e meraviglie: è Simone Martini, il simbolo dell’eleganza gotica.
Proprio lui, che era il corrispettivo in pittura di quel che Petrarca era in poesia.
Di Simone, due opere in particolare tolgono il fiato.
La prima è un affresco nella Sala del Consiglio del Palazzo Pubblico di Siena, Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi, dipinto nel 1330.
Un affresco grande, quasi 10 metri per tre e mezzo che copre tutta la parete che continua a essere il centro di polemiche per i restauri che hanno evidenziato rifacimenti nella parte sinistra, quindi mettendo in discussione il nome di Simone, ma anche per la lamina d'argento che ricopriva la gualdrappa e l'armatura del cavallo. Da ricordare, su questo punto, che Simone era affascinato dall'oreficeria e usava spesso le punzonature tipiche dell'arte orafa senese del XIV secolo. Ma, al di là delle polemiche, Guidoriccio resta e resterà per sempre un capolavoro.
L’immagine celebra il condottiero che aveva conquistato anche il castello di Sassoforte per i senesi, che poi lo perderanno, lo riconquisteranno e lo perderanno ancora ma va beh, la storia è fatta di sconfitte e vittorie.

SIMONE MARTINI - GUIDORICCIO DA FOGLIANO - SIENA, PALAZZO PUBBLICO
Lui è grandioso: in bilico tra la concretezza realistica dei singoli dettagli e il favoloso, irreale, effetto d’insieme.
E’ da solo, in una landa sabbiosa  e deserta. In dieci metri di colori quasi neutri, non c’è nessun altro. Si vedono gli accampamenti militare, i castelli, i monti, le bandiere ma non c’è anima viva.
E’ lui, vittorioso, con uno straordinario mantello a losanghe.
Lo immaginiamo urlare al mondo che si può vincere anche da soli, che sì ci vuole forza, coraggio e forse fortuna, ma si può.
Ma Simone non era solo questo.
Simone era poesia, eleganza, raffinatezza, bellezza spirituale.
SIMONE MARTINI - ANNUNCIAZIONE
FIRENZE, GALLERIA DEGLI UFFIZI
Nata nel 1333 per il Duomo di Siena, ora agli Uffizi, la sua Annunciazione lascerà un segno in tutta la storia dell’arte a venire. Guardatela.
E’ misteriosa e affascinante. L’oro del fondo accoglie in uno spazio irreale, quasi fosse un velo protettore, le sagome aristocratiche dei due protagonisti.
Ma è lei, la Madonna, quel qualcosa in più che fa di un quadro un capolavoro.
Lei, con la paura, così umana e femminile, di quell'annuncio che si materializza nel colore che pare fuggire davanti alla sola luce dell’angelo.
Lei, che come la donna celebrata dal Petrarca, è immersa nella luce ma non la emana.
Lei, con quel suo ritrarsi che la rende ancor più vera, con lo sguardo attonito contrapposto al sorriso accennato dell’angelo che le porge un ramo d'ulivo e non i gigli, simbolo dell’odiata Firenze che però devono vedersi, nel vaso dietro, perché anche simbolo di verginità. E con le regole dell’iconografia cristiana si poteva scherzare poco, anzi, pochissimo.
Eccoli i capolavori di Simone, nati in quel Medio Evo che per gli storici è un'epoca buia, quasi selvaggia, ma che è la base della modernità per la letteratura, la filosofia, la politica vera e la storia dell’arte.
L’epoca in cui Dante aveva già scritto la Divina Commedia, Petrarca i suoi sonetti, Boccaccio il suo Decamerone e la musica era dolce e lieve come un dono divino.
Un’epoca in cui Marco Polo era già stato in Cina, in cui nascono capolavori dell’oreficeria e le biblioteche laiche, in cui nascono edifici come la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, la Basilica di San Marco a Venezia e il Duomo di Milano. 
E, scusate, a me non pare affatto un’epoca buia. Anzi, direi che è luminosissima.