venerdì 12 dicembre 2014

Paolo Veronese processato dall'Inquisizione


PAOLO VERONESE
AUTORITRATTO GIOVANILE - 1560
MASER (TV) - VILLA BARBARO
Bisogna imparare a guardare.
Molto spesso, e comunque più di quanto non si creda, l’immagine che vediamo ne rappresenta un’altra, di solito con un significato completamente diverso.
E’ il 1571 e a Paolo Veronese viene affidata dai frati domenicani del veneziano convento di San Giovanni e Paolo la commissione per una Ultima cena, dipinto grandioso, alto quasi 13 metri e largo più di 5, da mettere nel refettorio,  in sostituzione del dipinto di ugual soggetto di Tiziano, distrutto da un'incendio, ora alle  Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Veronese era uomo di intelligenza fortissima, un vero genio, e la sua arte era di una forza totalmente creativa e scenografica, resa con sbalorditiva rifinitezza.
Il 20 aprile 1573 Paolo completa l’opera, pagata di tasca sua da padre Andrea Buono, che dalla sua eredità familiare prende i 400 ducati  d'oro necessari
Il giorno dell'Ascensione, quando il refettorio spalanca i suoi battenti in modo che tutti possano ammirare il capolavoro, cominciano i guai.
E’ una storia affascinante e intricata quanto un giallo, con tanto di processo e condanna.
Il Tribunale dell’Inquisizione stava con gli occhi aperti, acutamente consapevole del valore divulgativo che avevano, specie nei confronti della massa degli analfabeti, le rappresentazioni iconografiche dei misteri della Fede: un valore paragonabile a quello dei mass media del giorno d'oggi.
Era cioè necessario che tali rappresentazioni fossero rigorose e seguissero le indicazioni iconografiche date dal Concilio di Trento (1545/1563), che metteva anche in guardia contro le pitture sconvenienti ai luoghi sacri.  
Va bene che nel dipinto di Veronese non c'erano nudi come nel Giudizio Universale di Michelangelo, ma il nostro aveva usato colori e pennelli con una disinvoltura che non piacque assolutamente. 
Paolo finisce perciò sotto processo, i cui atti ci sono pervenuti per intero.

PAOLO VERONESE - CONVITO A CASA DI LEVI  - 1571 
VENEZIA, GALLERIE DELL'ACCADEMIA
Gli si chiede perché nella cena del Giovedì Santo avesse introdotto un cane, un nano buffone con un pappagallo in mano, un servitore che perde sangue dal naso, alcuni alabardieri tedeschi e altre figure profane che così tanto facevano discutere la città, peraltro per nulla bigotta, anzi.
Paolo si difende, ma poi capisce di trovarsi su di un terreno pericoloso e fa una precipitosa marcia indietro.
"Signore Illustrissimo, non ho considerato tante cose, non immaginando di commettere un'irregolarità, tanto più che quelle figure buffonesche sono collocate fuori del luogo dov'è Nostro signore".
Paolo viene comunque condannato a correggere il quadro entro tre mesi e a sue spese.
Sostituire quindi lanzichenecchi e buffoni con Maddalene penitenti o apostoli adoranti?
Neanche per sogno.
Il nostro se la cava con un escamotage: cambia il titolo al dipinto, facendolo diventare un Convito a casa di Levi, a proposito del quale il Vangelo dice che "molti pubblicani e peccatori erano a tavola insieme a Gesù e agli apostoli".
La storia non finisce, anzi forse è solo all'inizio, e come in un romanzo giallo arriva puntualmente il colpo di scena.
Il quadro mente, così come gli atti processuali confermano che Veronese mentì davanti al Tribunale.
Perché?
PAOLO VERONESE - ULTIMA CENA - 1585 - MILANO, PINACOTECA DI BRERA
 

Nell'Ultima cena, e questo è noto a tutti e non solo agli scaramantici, a tavola erano seduti in tredici e non in quindici come li dipinse il buon Paolo.
Inoltre Gesù veniva sempre raffigurato con i suoi apostoli - e le indicazioni del sui particolari iconografici erano ben più che intransigenti e feroci - in ambienti raccolti e da soli e non con una quarantina di personaggi intorno, di cui alcuni davvero stravaganti.
Recenti studi hanno invece dato un'altra versione della storia, ritrovando un'iconografia legata a un passo del Vangelo di Luca (11, 37/54) che racconta della Cena a casa del Fariseo, perfetto per dipingere sotto mentite spoglie i “cattivi prelati”, ossia coloro che sia da Roma sia da Venezia avevano intimato ai dotti ma assai liberi frati domenicani di seguire la regola rigidamente.
Piuttosto che passare da conventuali ad osservanti, ci faremo luterani” sembra avessero detto i frati di San Giovanni e Paolo.
PAOLO VERONESE - CONVITO A CASA DI LEVI -
PARTICOLARE CON IL NANO E L'IMMONDO
E i “cattivi prelati”, secondo questi studi, vengono ritratti come il nano deforme con il  pappagallo e l’immondo con il fazzoletto bagnato di sangue sulla scala di sinistra.
Un’immagine politica quindi, dal significato criptico, da far ritenere che il processo a lui intentato per eresia fosse in realtà una copertura per insabbiare il dibattito aspro e velenoso tra i frati veneziani e l’autorità ecclesiastica.
E non poche voci invocano la riapertura di un processo che, a distanza di quasi cinque secoli,  potrebbe riservare ancora molte sorprese.        

mercoledì 10 dicembre 2014

Andy Warhol, la banalità di un mito

ANDY WARHOL
SIX SELF PORTRAITS - 1986
Andy Warhol, il guru della Pop Art, nato il 6 agosto del 1928 da due immigrati slovacchi, non mi è mai piaciuto.
In ogni caso “vale”, permettetemi le virgolette, milioni di dollari.
Dopo gli anni Cinquanta, in cui lavorò come grafico pubblicitario, intorno al 1960 inizia a riprodurre la realtà americana in maniera seriale e ripetitiva: dai personaggi dei fumetti alle zuppe Campbell’ in scatole, dai dollari ai volti delle icone del suo tempo come Marilyn Monroe o Elvis Presley ripresi dalle loro fotografie più famose.
ANDY WARHOL - CAMPBELL'S
I critici dell’arte contemporanea (dotati di molta fantasia ma cosa altra rispetto agli storici dell’arte) dissero che Warhol prendeva le distanze da individualismi e interiorizzazioni e dall’idea romantica dell’artista demiurgo.
Tant’è.
ANDY WARHOL - COCA COLA
Inizia a serigrafare su tela immagini preesistenti, per lo più fotografie estrapolate dai mass-media.
Ritraeva ciò che si vede ogni giorno e, soprattutto, quello che diventava oggetto di devozione collettiva,  perché per lui l’arte era da consumarsi come qualsiasi prodotto, che fosse una bottiglietta di Coca Cola, una salsa di pomodoro o un fustino di detersivo.
La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina. Tutto quello che faccio lo faccio come una macchina, ed è quello che voglio fare. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui lavoro su una serigrafia: penso che chiunque dovrebbe essere in grado di dipingere ogni mio quadro al posto mio. Non sono mai stato capace di riprodurre un’immagine in modo chiaro e semplice e di farla identica alla precedente”.
E ha ben due schemi compositivi per realizzare i suoi ‘capolavori’: con il primo, isola e dilata l’immagine, stampandola al centro della tela; con il secondo, ripete serialmente il soggetto, allineato sul dipinto in sequenze ordinate e sovrapposte.
ANDY WARHOL - BLUE MARILYN - 1962
Esempio del primo schema: Blue Marilyn con l’immagine tratta dal poster del film Niagara.
Il dolce viso della sfortunata attrice si presenta frontale, ingrandito e isolato su un fondo azzurro in rigide campiture di colore: il rosa della pelle, il celeste degli occhi, il biondo oro dei capelli, il rosso della bocca.
Warhol non colorava solo gigantografie di personaggi famosi.
Si è anche buttato sulla pittura.
Ma forse non tutti sanno che dipingeva in un modo che definire strano è un eufemismo.
Preparava una tela, sempre di grandi dimensioni, con uno strato di vernice fresca a base di rame, poi ci urinava sopra, invitando amici e collaboratori a fare lo stesso.
La vernice a quel punto a contatto con l’urina si ossidava, creando schizzi di verde e arancione.
ANDY WARHOL - OXIDATION PAINTING - 1978
E ‘quadri’ così  - chiamati Oxidation  painting - valgono due milioni di dollari, anche se non c’è ricerca, non c’è forma, non ci sono pulsioni dell’anima, non c’è neanche astrattismo almeno nel significato più alto del termine ,non ci sono emozioni e  non c’è estetica.
Per me la storia dell'arte è una cosa seria, che prima di tutto deve essere fonte di gioia e bellezza, che ha le sue ragioni storiche e culturali.
E' mescolanza di cuore  e intelletto, di sentimento e tecnica, di novità e tradizione, di passione e genialità
Warhol invece andava fiero del suo rifiutare in toto la storia dell’arte, con tutti i relativi significati e implicazioni.
Andy Warhol muore il 22 febbraio 1987 per i postumi di un intervento alla cistifellea.

venerdì 5 dicembre 2014

Raffaello e il suo unico grande amore

JEAN-AUGUSTE DOMINIQUE INGRES
RAFFAELLO E LA FORNARINA - 1813
Raffaello quando si innamorò era al culmine della sua fama, aveva il gusto del lusso e della raffinatezza e vestiva abiti splendidi di sete e velluti che mettevano in risalto la sua bellezza un po’ languida.
E Michelangelo, uomo serio, tormentato e tutto d’un pezzo, lo guardava con aperta avversione…
Il  giovane pittore di Urbino, dove nacque nel 1483, aveva ormai imparato ogni segreto della pittura, sapeva maneggiare pennelli e colori con una tecnica fantastica, sì che riusciva a rendere il bello in ogni cosa che dipingeva.
RAFFAELLO SANZIO - LA VELATA - 1516
FIRENZE, PALAZZO PITTI
La bellezza fu una condizione necessaria per l’arte di Raffaello, perché egli desiderò di evadere dai mali del tempo” scriveva lo storico Lionello Venturi nel 1947.
Raffaello cercò la bellezza anche nella sua vita privata, che poi, inevitabilmente, si fuse con quella artistica.
Aveva una modella, una popolana, Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere, detta perciò la Fornarina.
Margherita era una ragazza bruna, affascinante, dal temperamento vivace, dalle forme opulente, con un viso perfetto illuminato da due occhi immensi.
Si incontrarono per caso, mentre lei si bagnava i piedi nel Tevere, e fu subito amore.
RAFFAELLO SANZIO 
 MADONNA DELLA SEGGIOLA
1514 - FIRENZE, PALAZZO PITTI
Lui viveva totalmente soggiogato da lei, non si stancava di ritrarla ed era così voglioso delle sue carezze che a volte, mentre lavorava era capace di abbandonare tutto per correre a trovarla.
Una passione violenta, fino alla nevrosi.
Tanto che, racconta il Vasari, nel 1514 pretende che gliela portino nella villa di Agostino Chigi alla Lungara dove sta dipingendo, altrimenti butterà all’aria tavolozza e pennelli, lasciando a metà l’affresco della Galatea, per il quale il banchiere senese gli ha imposto come modella la cortigiana Imperia.
E i matrimoni “bene” che i parenti e i suoi protettori gli sottoponevano, venivano regolarmente declinati con una scusa, perché, diceva lui, “doveva innanzitutto dedicarsi all’arte”.
Aveva anche una pseudo fidanzata, certa Maria, nipote del cardinal Bernardo Dovizi, brava figliola, con dote proporzionata alla fama di lui, ma il giovanotto rimandava indefinitamente le nozze a causa del suo amore struggente e tempestoso con la figlia del fornaio.
La fanciulla era davvero bellissima, lo si vede dai ritratti che il suo amante pittore le fece.
Quello più famoso è a Roma, nella Galleria di Palazzo Barberini
Lo realizzò intorno al 1518/1519 e alla sua morte era ancora lì, nel suo studio.
RAFFAELLO SANZIO
LA FORNARINA - 1518/1519
ROMA, GALLERIA DI PALAZZO BARBERINI
Lo dipinse di getto, senza disegno preparatorio.
Lei, sullo sfondo di un cespuglio di mirto, la pianta dedicata a Venere, è misteriosa e incantevole, dalla bellezza idealizzata e sublimata, assoluta ed enigmatica, con lo sguardo penetrante, perfetta, discreta quasi, ma che sa farsi puro erotismo nella sua discinta seminudità.
La sua pelle è chiara, quasi lattea, che vien voglia di accarezzare da quanto appare morbida, le sue mani sono appoggiate al seno e al ventre in una posa più che simbolica, il turbante di seta a righe verdi e dorate le copre in parte i capelli, il bracciale sul braccio con la firma di Raffaello, immersa in una luce che la fa schizzare fuori dallo sfondo scuro.
E’ ancora e sempre lei nella Velata di Palazzo Pitti a Firenze, con la sua grazia quasi sdegnosa declinata nei toni del bianco, del bruno e dell'oro, nella Madonna della Seggiola, nella Madonna di Foligno e della Santa Cecilia della Pinacoteca di Bologna.
E’ il 6 aprile del1520.

ROMA, PANTHEON
TOMBA DI RAFFAELLO
 
A 37 anni - alla stessa età di Parmigianino, Van Gogh e Toulouse-Lautrec - Raffaello muore, non perché sfinito dalle prodezze amatorie come vuole la leggenda, ma di pleurite.
Riesce a fare testamento: lasciò alla sua bella una somma tale da farla vivere decorosamente.
La poverina fu allontanata da casa durante l’agonia di lui, ma al momento del funerale, riapparve tra la folla e si gettò disperata e piangente sulla bara.
E per il dolore si ritirò a vita nel convento delle suore di santa Apollonia.
Ma è ancora lei e sempre lei nella Madonna del Sasso del Lorenzetto, voluta dallo stesso Raffaello a vegliare sulla sua tomba al Pantheon.
E il loro amore continua, speriamo, in eterno.