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martedì 4 luglio 2017

Il Rosso Fiorentino: un italiano a Parigi

Giorgio Vasari - Ritratto di Rosso Fiorentino - 1548 - affresco
Arezzo, casa di Giorgio Vasari
Era dotato di bellissima presenza; il modo del parlar suo era molto garbato e grave; era bonissimo musico et aveva ottimi termini di filosofia, e quel che più importava più che l’altre sue bonissime qualità, fu che egli del continuo nelle composizioni delle figure sue era molto poetico, e nel disegno fiero e fondato, con leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti, et un bellissimo compositore di figure. Nella architettura fu garbatissimo e straordinario, e sempre per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza”: eccolo il superlativo giudizio che dà il Vasari di Giovan Battista di Jacopo di Gasparre, detto il Rosso Fiorentino per via del colore dei suoi capelli, nato a Firenze domenica 8 marzo 1485.
Del giugno del 1514 è il saldo dovuto per la sua prima opera certa: l’Assunzione della Vergine nel Chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata, opera che fece per intercessione del suo maestro, Andrea del Sarto, con un cielo di angeli nudi che ballano intorno alla Vergine.
Rosso Fiorentino - 1518
Pala dello Spedalingo
Firenze, Galleria degli Uffizi
 La Pala dello Spedalingo, ossia il termine del committente Leonardo Buonafede derivante dal ruolo, vale a dire il rettore dell’Ospedale di Santa Maria Novella, è un dipinto del 1518, in origine destinato alla chiesa di Ognissanti e ora alla galleria degli Uffizi. Questa pala ha una storia bizzarra: Buonafede non la volle, tanto che fu poi messa in una chiesetta sperduta, perché, come racconta Vasari, il Rosso aveva dipinto i personaggi con “arie crudeli e disperate”, anche se “nel finirle poi addolciva l’aria e riducevale al buono”.
Nel 1518 una vicenda giudiziaria gli turba il sonno: un creditore voleva essere pagato e non potendolo saldare, viene condannato all’esilio, così va a Piombino ospite di Jacopo V Appiani, per il quale dipinge un “bellissimo” Cristo morto, quindi parte per Volterra, dove realizza una formidabile Deposizione, ora nel Museo Civico locale, ovvero della cittadina patria della lavorazione dell'alabastro, considerata da tutta la critica il suo capolavoro.
Rosso Fiorentino - Deposizione - 1518
Volterra, Museo Civico

E' un quadro che lascia senza fiato, come un pugno nello stomaco, di cui ci si ricorderà per sempre per le emozioni forti che regala.
Senza dubbio uno dei dipinti più sconvolgenti del XVI secolo, frutto di una complessa e forzata struttura compositiva e investito di un’intensità emotiva quasi insostenibile, con personaggi pietrificati in atteggiamenti drammatici e colori innaturali stesi in maniera compatta. Impressionante è anche il cielo, un’autentica cappa di piombo che grava incombente sulla scena, mentre le tre scale sono puri espedienti scenografici.
Intorno al 1521 però torna a Firenze, dove lavora alle ultime opere nella sua città: lo Sposalizio della Vergine e Mosè difende le figlie di Jetro, che poi donerà al re Francesco I di Francia.
L’anno dopo, complice anche la peste che si era ancora una volta abbattuta sulla sua città, parte per Roma, dove papa era Clemente VII, un esponente della famiglia Medici.
Al Museum of Fine Arts di Boston si conserva un Cristo morto sorretto da quattro angeli che il Rosso dipinse nel suo soggiorno romano, dove evidente è il richiamo alle figure scultoree di Michelangelo.
Rosso Fiorentino - 1521 - Putto che suona
Firenze, Galleria degli Uffizi
E’ il 1527, l’anno del Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi, che lo catturano, lo derubano, lo umiliano, “scalzo e senza nulla in testa, gli fecero portare addosso pesi, e sgombrare quasi tutta la bottega di un pizzicagnolo” per poi lasciarlo libero. Il Rosso va via dalla città eterna così come fecero quasi tutti i suoi colleghi, che riempirono l’Europa di talenti italiani. 
Va a Perugia e da lì a Sansepolcro, ospite del suo coetaneo Leonardo Tornabuoni, vescovo, con cui era amico, dove dipinge la Deposizione per la locale chiesa di San Lorenzo: “cosa molto rara  e bella, per avere osservato ne’ colori un certo che tenebroso per le eclisse che fu la morte di Cristo, per essere stata lavorata con grandissima diligenza”.
Inizia un periodo tormentato per l’artista, che girovaga un po’, da Sansepolcro va a Città di Castello da dove ritorna a Sansepolcro per poi ripartire e andare a Pesaro prima e a Venezia poi, finché nell’autunno del 1530 è a Parigi.
Rosso Fiorentino - Pietà - 1540 circa - Parigi, Museo del Louvre
Nella capitale francese, è accolto con onori dal re Francesco I che, oltre allo stipendio come pittore, gli concede anche una casa. Qui dipinge la Pietà, oggi al Museo del Louvre.
Ma più che a Parigi, il nostro passa tutto il suo tempo nella reggia di Fontainebleau, dove le sue opere purtroppo sono poco leggibili perché deteriorate. Ma qui fa di tutto: Vasari racconta che disegna “saliere, casi, conche et altre bizzarrie, abbigliamenti di cavalli, di mascherate, di trionfi e di tutte l’altre cose che si possono immaginare, e con sì strane bizzarre fantasie che non è possibile far meglio”.
La sua morte sembra ancora un mistero: Vasari dice che si suicidò con il veleno domenica 14 novembre 1540, fatto che scosse assai il re.
Le opere da lui commissionate al Rosso, vennero poi terminate dal Primaticcio, che diede origine alla scuola di Fontainebleau, paradiso del Manierismo.

venerdì 5 settembre 2014

Sensualità femminile

Giorgione - Venere dormiente - 1510 - Dresda, Gemaldegalerie
Bella, anzi bellissima, con un braccio dietro alla testa e l’altro che si tiene il pube con un gesto delicato, come di protezione, sdraiata mollemente, quasi sfinita, su un drappo di seta bianca e su un cuscino coperto da un drappo rosso, immersa in un paesaggio che infonde serenità, con il viso dolce di adolescente cresciuta in fretta.
E’ la Venere dormiente che Giorgione dipinse nel 1510.
Forse un sogno proibito di quel genio  che  ci  lasciò talmente  poche opere, tutte straordinariamente belle, che di lui sappiamo ancora oggi molto poco, se non che morì giovanissimo, a 32 anni.
Forse era la rappresentazione dell’amore ideale, quello che forse mai aveva provato, o magari era il ritratto della sua amata che si riposava. Forse era il ricordo di quella giovane nuda, l’unico frammento rimasto degli affreschi al Fondaco dei Tedeschi a Venezia.
Congetture, ipotesi, ma le forme delicate e sinuose, i suoi piccoli e perfetti seni, l’atmosfera di sensualità che nasce da quel semplice gesto della mano rimangono indelebili nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederla alla Gemäldegalerie di Dresda o semplicemente in fotografia.
Certo è che la sua Venere è probabilmente il primo nudo femminile dell’arte italiana, se non si contano ovviamente gli affreschi e i mosaici di Pompei, che già duemila anni fa raccontavano la vita come era realmente e come la vivevano i suoi sfortunati abitanti: le passioni, gli amori, le perversioni, il sesso, le feste. E lo facevano senza curarsi di peccati o di terribili dannazioni eterne perché liberi dai precetti della Chiesa che non era ovviamente ancora arrivata. Ma dipingevano anche la natura con una semplicità e una precisione straordinaria. La stessa natura, dolce, delicata e sfumata, che ritorna in Giorgione con una forza strabiliante e che ricorda in qualche modo le forme nude della fanciulla.
Fu Tiziano a finire la Venere perché Giorgione morì proprio in quell’anno.
E determinò così il trionfo del genere del nudo femminile, prendendo a pretesto la mitologia, le allegorie o le metamorfosi.
Un bel salto rispetto al passato pudico e tremebondo.

Anonimo - Gabrielle d'Estrèes e la duchessa di Louve nel Bagno - 1590 - Parigi, Museo del Louvre
Da quel giorno in poi la nudità gettò i suoi veli al vento e si mostrò a tutti, a volte più spudoratamente a volte meno, a volte proprio per colpire la fantasia erotica, come nel dipinto Gabrielle d’Estrées e la duchessa di Louve nel bagno, al museo del Louvre di Parigi, che un artista anonimo della scuola di Fontainebleau dipinse intorno al 1590.
Si potrebbero trovare simbolismi di ogni sorta, a partire da quelli esoterici, ma quel che colpisce è il conturbante erotismo della donna che pizzica il capezzolo dell'altra, dentro il preziosismo dei particolari minuti di origine fiamminga e la preziosità dei colori, pochi per la verità: bianco, rosso e nero.
E la maniera della scuola di Fontainebleau è caratterizzata proprio dalla predilezione per le figure femminili allungate e sinuose, dall’eleganza e dalla gracilità del segno, da una fantasia intellettualistica che sceglie voluttuosi temi mitologici e oscuri temi allegorici per rappresentarli con cerebrale sensualità.
Le dame della corte dei Valois si disputarono l’onore di farsi ritrarre come dee nude di inquietante bellezza e nacquero così dipinti celeberrimi.
Diana di Poitiers, la favorita di Enrico II, la cui autorità suscitò un timore reverenziale, fu il primo ed uno dei più preveggenti arbitri del gusto, oltre che notissima per le sue grazie. Sue personificazioni mitiche, quali Diana cacciatrice, ora al Museo del Louvre di Parigi o il Ritratto di Diana di Poitiers nel Kunstmuseum di Basilea,  furono i soggetti di molti capolavori della pittura e della scultura del suo tempo.
Non serve perciò pensare che l’arte antica sia sempre e solo una roba noiosa, pesante e per soli appassionati o studiosi.
A volte può essere anche piacevole, molto piacevole.