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venerdì 14 novembre 2014

Giorgione, il vero rivoluzionario

GIORGIONE
MADONNA, BAMBINO E SANTI
Era davvero l’enfant prodige della pittura cinquecentesca e, non so perché, ma lo immagino giovane e bello, come lo era l’eroe della Locomotiva di Guccini.
Forse perché morì a 33 anni, forse perché la sua vita e le sue pochissime opere sono ancora un mistero ancora tutto da scoprire, alimentato da leggende che spalmano su di lui un alone di mistero ancor più affascinante.
Di Giorgio da Castelfranco detto Giorgione, si sa che nacque intorno al 1477 e ben poco dalle Vite di Giorgio Vasari e dalla biografia che scrisse Carlo Ridolfi nel 1648, spesso, come succedeva all’epoca, piuttosto inattendibile seppur con un fondo di verità. 
in ogni caso entrambi raccontano che il giovanotto amasse le belle donne, l’amore, la vita, la musica e che frequentasse la società patrizia veneziana raffinata e per nulla bigotta.
Inizia la sua carriera nel 1504 con una pala d’altare di impostazione ancora belliniana per la sua cittadina ma subito la svolta, improvvisa e violenta, tale che lasciò una traccia potentissima nella pittura dei secoli a venire.
Chiave della sua arte è il rapporto tra pittura e natura con la resa della luce e dell’atmosfera. 
GIORGIONE - CONCERTO CAMPESTRE
Per raggiungere questo effetto, riduce l’importanza del disegno di contorno, esaltando così i passaggi cromatici di tono.
Pochissime sono le tele che dipinse sicuramente il giovane talento veneto fra cui la Venere dormiente, la Tempesta e I tre filosofi.
Altre due tele, il Concerto campestre e il Concerto, sono contese, da sempre fra la mano di Giorgione e quella di Tiziano, suo allievo.
Comunque, io propendo per attribuirle entrambe a Giorgione, perché l'impostazione non può che essere che sua. 
Nella Venere dormiente, di cui ho già scritto un articolo, il primo nudo femminile dell’arte moderna, la dea non è comunque la protagonista per il suo fondersi con il paesaggio, che segue le forme e le sembianze del corpo.
Ancora più rivoluzionario il rapporto tra Natura e figura umana nella Tempesta: nell’ampia veduta in profondità, illuminata dal bagliore di un lampo, si inseriscono due figure, un giovane con una lancia e una donna che allatta il bambino.
GIORGIONE - LA TEMPESTA
Non importa sapere che i due sono Adrasto e Ipsipila, due personaggi di un poema di Stazio.
Sono immersi in una sfera fantastica e poetica: tra la natura in tempesta, la donna e l’uomo si instaura un feeling di sensazioni evasive, indecifrabili, che sono la vera essenza di questo capolavoro.
Tecnicamente, l’indefinitezza pittorica che riassorbe i contorni del colore usato nelle sue infinite possibilità risponde all’indefinitezza del soggetto e suggerisce una nuova visione della natura.
Il dettaglio degli alberi consente di apprezzare in pieno la pazientissima e fine tessitura luministica che regala al dipinto una straordinaria e inedita suggestione.
L’ultimo capolavoro giorgionesco è I tre filosofi, su cui storici, filosofi, iconografi e semiotici si sono letteralmente spaccati il cervello.
GIORGIONE - I TRE FILOSOFI
Un enigma, di quelli che di sicuro piacevano al ragazzo di Castelfranco, forse fatto apposta per far impazzire la gente.
Forse raffigura le tre età dell’uomo, forse.
L’importante è che ancora una volta il suggestivo scorcio di paesaggio animato dalla luce dorata e le tre figure pensose e monumentali sono un tutt’uno che diventa messaggio poetico e profondo.
Giorgione muore nel 1510, lasciando dietro di sé il mistero della sua vita e delle sue opere e, davanti, una nuova, straordinaria, strada per la pittura.

venerdì 5 settembre 2014

Sensualità femminile

Giorgione - Venere dormiente - 1510 - Dresda, Gemaldegalerie
Bella, anzi bellissima, con un braccio dietro alla testa e l’altro che si tiene il pube con un gesto delicato, come di protezione, sdraiata mollemente, quasi sfinita, su un drappo di seta bianca e su un cuscino coperto da un drappo rosso, immersa in un paesaggio che infonde serenità, con il viso dolce di adolescente cresciuta in fretta.
E’ la Venere dormiente che Giorgione dipinse nel 1510.
Forse un sogno proibito di quel genio  che  ci  lasciò talmente  poche opere, tutte straordinariamente belle, che di lui sappiamo ancora oggi molto poco, se non che morì giovanissimo, a 32 anni.
Forse era la rappresentazione dell’amore ideale, quello che forse mai aveva provato, o magari era il ritratto della sua amata che si riposava. Forse era il ricordo di quella giovane nuda, l’unico frammento rimasto degli affreschi al Fondaco dei Tedeschi a Venezia.
Congetture, ipotesi, ma le forme delicate e sinuose, i suoi piccoli e perfetti seni, l’atmosfera di sensualità che nasce da quel semplice gesto della mano rimangono indelebili nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederla alla Gemäldegalerie di Dresda o semplicemente in fotografia.
Certo è che la sua Venere è probabilmente il primo nudo femminile dell’arte italiana, se non si contano ovviamente gli affreschi e i mosaici di Pompei, che già duemila anni fa raccontavano la vita come era realmente e come la vivevano i suoi sfortunati abitanti: le passioni, gli amori, le perversioni, il sesso, le feste. E lo facevano senza curarsi di peccati o di terribili dannazioni eterne perché liberi dai precetti della Chiesa che non era ovviamente ancora arrivata. Ma dipingevano anche la natura con una semplicità e una precisione straordinaria. La stessa natura, dolce, delicata e sfumata, che ritorna in Giorgione con una forza strabiliante e che ricorda in qualche modo le forme nude della fanciulla.
Fu Tiziano a finire la Venere perché Giorgione morì proprio in quell’anno.
E determinò così il trionfo del genere del nudo femminile, prendendo a pretesto la mitologia, le allegorie o le metamorfosi.
Un bel salto rispetto al passato pudico e tremebondo.

Anonimo - Gabrielle d'Estrèes e la duchessa di Louve nel Bagno - 1590 - Parigi, Museo del Louvre
Da quel giorno in poi la nudità gettò i suoi veli al vento e si mostrò a tutti, a volte più spudoratamente a volte meno, a volte proprio per colpire la fantasia erotica, come nel dipinto Gabrielle d’Estrées e la duchessa di Louve nel bagno, al museo del Louvre di Parigi, che un artista anonimo della scuola di Fontainebleau dipinse intorno al 1590.
Si potrebbero trovare simbolismi di ogni sorta, a partire da quelli esoterici, ma quel che colpisce è il conturbante erotismo della donna che pizzica il capezzolo dell'altra, dentro il preziosismo dei particolari minuti di origine fiamminga e la preziosità dei colori, pochi per la verità: bianco, rosso e nero.
E la maniera della scuola di Fontainebleau è caratterizzata proprio dalla predilezione per le figure femminili allungate e sinuose, dall’eleganza e dalla gracilità del segno, da una fantasia intellettualistica che sceglie voluttuosi temi mitologici e oscuri temi allegorici per rappresentarli con cerebrale sensualità.
Le dame della corte dei Valois si disputarono l’onore di farsi ritrarre come dee nude di inquietante bellezza e nacquero così dipinti celeberrimi.
Diana di Poitiers, la favorita di Enrico II, la cui autorità suscitò un timore reverenziale, fu il primo ed uno dei più preveggenti arbitri del gusto, oltre che notissima per le sue grazie. Sue personificazioni mitiche, quali Diana cacciatrice, ora al Museo del Louvre di Parigi o il Ritratto di Diana di Poitiers nel Kunstmuseum di Basilea,  furono i soggetti di molti capolavori della pittura e della scultura del suo tempo.
Non serve perciò pensare che l’arte antica sia sempre e solo una roba noiosa, pesante e per soli appassionati o studiosi.
A volte può essere anche piacevole, molto piacevole.