giovedì 30 agosto 2018

Andrea del Sarto: storia d'arte e d'amore


Andrea del Sarto - Autoritratto
1528 - affresco staccato
Firenze, Corridoio vasariano
Era sarto il suo papà, cosicché Andrea d’Agnolo, questo il suo vero cognome, nato domenica 16 luglio 1486 a Firenze, così è da tutti conosciuto.
Andrea del Sarto, nel quale uno mostrarono la natura e l’arte tutto quello che può far la pittura mediante il disegno, il colorire e l’invenzione” racconta Vasari, aggiungendo che se avesse avuto un carattere “più fiero ed ardito, siccome era d’ingegno e giudizio profondissimo in questa arte, sarebbe stato senza dubitazione alcuna senza pari”.
Andrea del Sarto
Storie di san Filippo Benizzi - 1510
Firenze
 chiesa della Santissima Annunziata
E in effetti il piccolo Andrea dimostra già le sue doti: a sette anni va a lavorare da un orefice e il pittore Gian Barile, intuendone le capacità, lo prende con sé. A dieci anni lo stesso Barile lo porta nella bottega di Piero di Cosimo, “tenuto uno dei migliori pittori che fossero in Fiorenza”, e Andrea non si smentisce, tanto che sempre Vasari racconta: “E la natura, che l’aveva fatto nascere pittore, operava tanto in lui, che nel maneggiare i colori lo faceva con tanta grazia come se avesse lavorato cinquanta anni”.
Uomo dolce e buono, Andrea inizia la sua vera carriera nel 1510 dipingendo ad affresco  le Storie di san Filippo Benizzi nell’atrio della chiesa della Santissima Annunziata di Firenze, cui seguirono il ciclo del chiostro dello Scalzo con le Storie di san Giovanni Battista del 1512 e la Madonna del sacco nel Chiostro dei Morti della Santissima Annunziata, tappe di un’abbondante attività di frescante che, oltre le radici fiorentine della sua arte, rivelano il suo progressivo aggiornarsi sui contemporanei sviluppi della cultura romana.
Andrea del Sarto
Madonna delle Arpie
1517 
 Firenze, Galleria degli Uffizi
La serie numerosa delle sue pale sacre, dal palpitante disordine della giovanile Annunciazione, ora a Palazzo Pitti a Firenze, all’aristocratica dolcezza della celeberrima Madonna delle Arpie, alla Galleria degli Uffizi, dove lo schema piramidale le conferisce un equilibrio perfetto, indica in Andrea colui che ha raccolto l’eredità della tradizione fiorentina e dei tre grandi, Leonardo, Raffaello e Michelangelo, contemporaneamente attivi a Firenze agli albori del Cinquecento, riassumendola in un classicismo sobrio e armonioso.
Di quegli anni è il Ritratto di scultore, ora a Londra alla National Gallery, un genere a cui Andrea si applicò sporadicamente, splendido dipinto nel quale la figura appare avvolta in una dolce luminosità che denota la sua abilità nella tecnica dello sfumato appresa da Leonardo.
Andrea del Sarto
Ritratto di scultore - 1518
Londra, National Gallery
Il 1517 è un anno importante per la sua vita: sposa infatti Lucrezia Del Fede. Vasari con ironia racconta la sua vita matrimoniale: “Essendosi d’una giovine innamorato, e poco appresso rimasta vedova, toltala per moglie, ebbe più che fare il rimanente della sua vita, e molto  più da travagliare per l’addietro fatto non aveva”.
La sua sposa gli creò non pochi problemi: per lei Andrea trascurò l’arte divenendone gelosissimo.
Comunque, la vita matrimoniale non gli impedì di partire per la Francia chiamato dal re Francesco I e da questi accolto come una vera e propria star: “Andrea, prima che passasse il primo giorno del suo arrivo, provò quanta fosse la liberalità e la cortesia di quel magnanimo re, ricevendo in dono danari e vestimenti ricchi ed onorati”, scrive Vasari.
Andrea del Sarto
Carità - 1518
Parigi, Museo del Louvre
Per Francesco, Andrea dipinge “il Delfino figliuolo del re nato di pochi mesi e così in fasce, e portatolo al re, n’ebbe in dono trecento scudi d’oro” e una Carità, ora al Museo del Louvre di Parigi, splendido quadro tenuto in grandissima considerazione dal re e dalla sua corte.
Ma al cuor non si comanda, recita un vecchio detto.
Così, leggendo alcune lettere della moglie, la nostalgia prese il sopravvento e Andrea chiese al re di poter partire, ma rassicurandolo che sarebbe tornato presto e giurò perfino sul Vangelo.
Francesco I gli credette, gli diede del denaro e Andrea tornò a Firenze. Qui si godette la sua bella moglie, i suoi amici e le feste nella sua città, ma sperperò il suo denaro e anche quello ricevuto da Francesco I.
Andrea del Sarto - 1522/1523
Madonna della scala
Madrid, Museo del Prado
Non ebbe più il coraggio di tornare in Francia, voleva rimanere con la moglie, che gli faceva pure da modella, tanto che le sue figure femminili, Madonne comprese, hanno tutte il suo volto, come nella Madonna della Scala, oggi al Museo del Prado di Madrid.
Il re, ovviamente, si infuriò, tanto che non volle più, per lungo tempo, pittori fiorentini alla sua corte.
La  sua vena creativa si spegne un poco alla volta e Andrea rifà dipinti rielaborandoli e lasciando molto più spazio agli allievi della sua bottega.
Firenze era sotto assedio spagnolo in quel periodo e la città si riempì di soldati, tra cui alcuni appestati. E fu per questo che Andrea si ammalò e morì venerdì 21 gennaio 1531 e Vasari scrive: “Senza poter trovare rimedio al suo male e standogli più lontana che poteva la moglie per timore della peste, si morì che quasi nessuno se n’avvide”.
Andrea fu sepolto nella chiesa dei Servi e gli fu cantato il solenne Ufficio, perché “a Dio piacesse tirarlo al suo beato regno”.

sabato 16 giugno 2018

Antonio Ligabue: follia e arte, sempre a braccetto

Antonio Ligabue - Autoritratto
Ancora una volta follia e arte si intrecciano in un personaggio da romanzo, dal viso spigoloso che pare tagliato con un'accetta e da quegli occhi grandi come l'infinito che cercano.
E’ una vita segnata da disgrazie, miseria, solitudine e fame quella di Antonio che inizia lunedì 18 dicembre del 1899 a Zurigo, figlio illegittimo di Elisabetta Costa, poi andata sposa a un emigrato di Gualtieri, Bonfiglio Laccabue, che lo riconosce ma che Antonio odia, tanto da cambiare il cognome in Ligabue, convinto che fosse lui la causa della morte della madre e di tre suoi fratelli per intossicazione alimentare. L’anno dopo il piccolo Antonio viene dato in affidamento a una famiglia svizzera-tedesca, i Gobel, anch’essa tormentata dalla miseria, che si accanirà anche sul destino del piccolo, sofferente di rachitismo e carenza vitaminica che lo segnerà nel fisico, che rimarrà sgraziato per sempre.
Antonio Ligabue
Aquila con colomba - 1960
Olio su tela
Lui è insofferente al mondo: ama decisamente più gli animali degli uomini e si costruisce barriere mentali per riuscire a sopportare la vita.
Inizia ad andare a scuola in un istituto ‘per ragazzi deficienti’ e nel 1917 viene ricoverato per la prima volta in una clinica psichiatrica.
L’unico sollievo di Antonio  è la pittura, una passione che per lui è salvifica.
Ma il 15 maggio del 1919 è espulso dalla Svizzera denunciato dalla madre adottiva, quindi Antonio, ventenne, si trasferisce a Gualtieri, dove il comune gli assegna un posto letto in un ricovero per mendicanti e gli dà la possibilità di lavorare come ‘scarriolante’ alla costruzione della strada che congiunge il paese agli argini del Po.
In questo periodo si avvicina alla scultura in creta, utilizzando l’argilla che trova vicino al grande fiume.
Negli anni successivi, dal 1928 al 1929, vive come una specie di selvaggio nei boschi e nelle golene del Po e in uno di quei casotti avviene l’incontro che gli cambierà la vita: viene scoperto da Marino Renato Mazzacurati, uno dei fondatori della scuola romana che lo ospita nella sua casa di Gualtieri e gli insegna l’uso dei colori ad olio.
Antonio Ligabue - Aratura con cavalli - olio su cartone
Ligabue  a  quel punto vive solo di pittura, anche se la sua vita è sempre errabonda, tra le case di amici generosi, le baracche del Po e il ricovero per mendicanti.
Le sue opere pittoriche si presentano come squillanti, violente e nostalgiche al contempo, condite da dettagli precisi e ambientate in paesaggi di tipo campestre, con immaginazione e memoria che si mescolano a seconda del soggetto o del paesaggio rappresentato.
Solitamente si divide l’opera di Ligabue in tre grandi gruppi: animali domestici e feroci, paesaggi svizzeri e padani, interni, ritratti e autoritratti con capolavori assoluti che sono diventati vere icone.
Antonio Ligabue - Autoritratto con motocicletta
Olio su tela
Particolarmente significativi sono i ritratti di questo periodo, impietoso specchio di un’esclusione patita sulla propria pelle e di un profondo malessere.
Nei suoi dipinti esprime la propria concezione di esistenza intesa come lotta perenne, come battaglia senza regole, intervallate solo da rari momenti di serenità.
E’ il 1937 quando viene nuovamente internato nell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia per atti di autolesionismo e quattro anni più tardi il suo amico Andrea Mozzati lo ospita nella sua casa di Guastalla, prendendosene la responsabilità. Nel 1945 un ennesimo ricovero all’ospedale psichiatrico dove continua però a dipingere e inizia qui l’interesse della critica per le sue opere.
Ma la celebrità comincia ad arrivare: nel 1955 la sua prima mostra personale alla Fiera Millenaria di Gonzaga e l’anno dopo la partecipazione al Premio Suzzara, mentre nel 1961 un’altra mostra personale alla Galleria La Barcaccia di Roma che segna la sua definitiva consacrazione come pittore naif. Antonio esce così dalla miseria che aveva sempre contraddistinto la sua vita.
Antonio Ligabue
Leopardo con il serpe - 1952
olio su tela
Oltre alle emozioni che suscitano, permettono di ammirare con chiarezza la sua tecnica pittorica fatta di strati di colore brillanti sovrapposti e molto spessi che danno quasi l’impressione che i dipinti siano tridimensionali.
Ligabue viveva in un mondo rurale, all’interno del quale la sua  mente ha saputo integrare un bestiario esotico e scenari montani, se non da fiaba.
Il 18 novembre del 1962 lo colpisce una emiparesi che lo lascerà menomato per gli ultimi anni della sua esistenza.
Antonio Ligabue
Testa di tigre - 1955
olio su tela

Giovedì 27 maggio del 1965 la triste vita di Antonio Ligabue, chiamato ‘Al matt’, il matto, finisce nel ricovero Carri di Gualtieri, che nel manifesto mortuario scrive così: “la caratteristica
figura di Ligabue, così familiare nella nostra zona, scomparirà forse dalla nostra memoria, ma la bellezza delle sue opere parlerà anche alla generazioni future, di uno spirito che soffrì ed amò con eccezionale forza di sentimenti”. 
Da quel giorno, riposa nel cimitero cittadino il pittore autodidatta di cui i contemporanei non hanno saputo cogliere la visionarietà, il tragico espressionista che nelle sue rappresentazioni ha sintetizzato un universo di passioni dai colori accesi e dalle forme feroci.


mercoledì 10 gennaio 2018

Ambrogio Lorenzetti: l'attualità politica della sua arte

Ambrogio Lorenzetti - Allegoria del Buon Governo sulla città e sul contado - 1338  - affresco - Siena, Palazzo Pubblico
Sarebbe un sogno se oggi avessimo un buon governo in grado di far lavorare tutti, far vivere i cittadini in serenità e sicurezza e se gli stessi governanti fossero onesti, intelligenti e lungimiranti. Ma è decisamente una chimera...
A rendere tangibile questa chimera però ci ha pensato Ambrogio Lorenzetti, pittore della scuola senese nato nel 1290 e morto di peste nel 1348 insieme al fratello Pietro, anche lui valente pittore.
Di Ambrogio, Lorenzo Ghiberti e Vasari scrissero che fu artista letterato, filosofo, studioso dell’antico e la conferma viene dal carattere intellettuale della sua opera.
Ambrogio Lorenzetti - Maestà -1335
Massa Marittima, Museo di Arte Sacra
Dopo le opere giovanili, ancora piuttosto statiche nei gesti anche se già sorridenti e vivaci nelle espressioni, trova man mano una progressiva sicurezza fino alla creazione di gruppi monumentali, come la splendida Maestà del 1335 al Museo di Arte Sacra di Massa Marittima, la Presentazione al Tempio del 1342 per il duomo di Siena ma ora alla Galleria degli Uffizi, con straordinarie prospettive e ambienti particolarmente complessi, resi ancor più evidenti dall’uso degli archi o scene dinamiche come gli affreschi per la chiesa di San Francesco a Siena.
E’ nel 1338 che Ambrogio inizia la sua opera maggiore, gli affreschi con l’affascinante Allegoria del Buono e del Cattivo Governo in città e nel contado per la Sala dei Nove ora Sala della Pace nel Palazzo Pubblico di Siena: colta, raffinata e ricca di suggestioni intelligenti e particolari.
Ambrogio Lorenzetti - Pace
Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove
Lorenzo Ghiberti, scultore, orafo e anche letterato, nei suoi Commentari scritti nel 1447, descrive l’opera di Ambrogio come il più famoso ciclo murale della pittura senese e un’opera assolutamente unica nel suo genere per l’ispirazione politica e per le finalità didascaliche e morali.
Ma in essa Ambrogio riuscì a dare anche una visione ampia, aderentissima e straordinaria della vita della società trecentesca.
Nell’allegoria, dove il Buon Governo è rappresentato come un vecchio gigantesco e maestoso in abiti imperiali a cui il popolo, protetto dai soldati in armi si stringe fiducioso, sono raffigurate la Magnanimità, la Moderazione e la Giustizia, la Prudenza, la Fermezza, la Pace e la Sicurezza.
Quella della Pace è la più bella tra le figure della composizione tanto che ha dato il nome attuale alla sala: si tratta di una fanciulla mollemente adagiata su un divano, semplicemente vestita di una tunica bianca quasi trasparente, con i capelli biondi incoronati da fronde di ulivo, che calpesta un elmo e uno scudo, emblemi di guerra; sopra il suo capo compare la scritta PAX.
Ambrogio Lorenzetti - Allegoria degli effetti del Buon Governo - 1338
affresco - Siena, Palazzo Pubblico
Ai piedi delle Virtù, i cittadini amichevolmente uniti alludono alla fine delle antiche fazioni che avevano diviso la città e, più oltre, una veduta di Siena è animata da un gruppo di nobili fanciulle che danzano davanti alla porta della città, da mercanti a cavallo, da contadini di ritorno dai campi e da altre scene di vita quotidiana.
Sullo sfondo, in un paesaggio dolcemente collinoso, piantato a ulivi e a filari di viti, ecco la Sicurezza che solca il cielo volando e tenendo nella mano sinistra una forca da cui pende un malfattore.
Ambrogio dà qui una preminenza assoluta alla rappresentazione del paesaggio, sia urbano che campestre, cogliendone gli aspetti più caratteristici, vivi e realistici.
Ambrogio Lorenzetti - Allegoria del Cattivo Governo - 1338
affresco - Siena, Palazzo Pubblico
La prosperità della città ben governata si rivela innanzitutto nell’eleganza e nell’armonia dei suoi edifici che formano un policromo fondale lungo le strade e attorno alle piazze, dove si muove una complessa e ben articolata società fatta anche di giovani patrizie che danzano uno spensierato girotondo. Sulla parete di fronte è rappresentato il Cattivo Governo, accompagnato da Vizi che lo caratterizzano: la Tirannia, l’Orgoglio, la Vanità, il Tradimento, la Crudeltà.
Vizi che ai giorni nostri, ahimè, sono ben più imponenti, radicati in ogni fascia della classe politica, di qualunque colore essa sia.
Di Ambrogio rimangono anche una Presentazione al Tempio, alla Galleria degli Uffizi, un’Annunciazione alla Pinacoteca Nazionale di Siena - probabilmente il suo ultimo dipinto dove significativo è lo studio prospettico del trono e del pavimento -, alcune bellissime Madonne in cui all’appassionata immediatezza si unisce una sottigliezza di indagini stilistiche e di ricerche formali inedite.
Ambrogio Lorenzetti - Castello sul lago - Siena, Pinacoteca Nazionale
Per finire, due fantastiche tavolette, rispettivamente con la Città sul mare e con il Castello su un lago, sempre a Siena alla Pinacoteca Nazionale, che rappresentano i primi saggi di pittura di paesaggio di tutta l’Europa.
Forse le tavolette facevano parte di un complesso più ampio, come le ante di un armadio. Sono due efficacissime visioni per la purezza disegnativa e il tocco sapiente dei lumi, da cui nasce quel tremulo eppure nitido bagliore dai riflessi cristallini propri di Ambrogio.
Ed è incantato il silenzio che sublima gli oggetti preziosi, immoti, che segnano, nel trascolorare dei verdi e dei rosa, le fasi in cui si sviluppano le due scene.