venerdì 5 settembre 2014

Dov'è Alessandro Magno?

Kasta, Antifoli - Tomba - IV secolo a.C.
Alessandro Magno ritratto  come il dio Elio
117/136 a. C. - Roma, Musei Capitolini
«Il più grande imperatore al mondo. Lo sentiamo nostro da sempre, fa parte di noi».
E’ l’orgoglio macedone di Vanko, ingegnere incontrato per caso, a far capire quanto la stella di Alessandro Magno brilli sempre.
E se è vero che moltissimi sono gli archeologi che in Macedonia scavano per cercare le tracce del loro imperatore, è anche vero che intorno ai suoi resti mortali si sia scatenata una bagarre storico-archeologica-fantascientifica senza uguali.
La domanda che aleggia ormai da anni è: dove riposa quell’uomo dallo sguardo carismatico da tigre e dal volto apollineo?
Meno di un mese fa ad Anfipoli, in Grecia a poco meno di un centinaio di chilometri da Salonicco, sono state trovate una coppia di sfingi senza testa e un leone alto cinque metri, simbolo dell’imperatore, che sorvegliano l’ingresso di una tomba databile fra il 325 e il 300 a.C.: un tumulo di 498 metri di circonferenza.
Un sussulto generale.
Il premier greco Samaras si è catapultato di persona a vedere gli scavi, commosso ed esaltato. In effetti, ad Antifoli, risiedevano la moglie, Rossana, e il figlio, Alessandro IV, e dove trovarono la morte, avvelenati per ordine del generale Cassandro.
Che si siano trovati i resti mortali del grande condottiero, simbolo di potenza e grandezza, allievo di Aristotele, morto a Babilonia nel 323 a.C.?
Staremo a vedere. A un mese dalla scoperta, è calato un gelido silenzio.
All’inizio del secolo scorso ad Alessandria d’Egitto, nella città che da lui prese il nome - vicino alla necropoli di Shatby in una zona dove anticamente dovevano essere i palazzi reali - si trovano i resti di un edificio monumentale di straordinaria qualità e imponenza, poi dimenticati per molto tempo.
Nel 1936 l’archeologo italiano Achille Adriani procede al restauro e riassembla una camera rettangolare formata da quattro blocchi monolitici giganteschi di alabastro del peso di varie tonnellate.
All’interno i blocchi erano levigati accuratamente, rivelando meravigliose venature e disegni a macchie con coloriture vivaci, dall’avorio all’ocra e al rossiccio, all’epoca lucidati a cera.
All’esterno invece erano allo stato grezzo, proprio come quelli che venivano coperti da un tumulo, ossia la forma tipica delle tombe macedoni, proprio come quella del padre Filippo scoperta a Verghina, in Macedonia, nel 1977.
Nella parete poi che dava a sud c’era un passaggio che dava su un altro ambiente, quello che si suppone sia la vera e propria camera funeraria.
Ma lui, il mito della storia di tutti i tempi, non c’è.
E il mistero continua.
Alessandria d'Egitto - Cimitero latino di Terrasanta- Tomba di Alessandro


giovedì 4 settembre 2014

Franco Fontana: i colori della vita

Quando incontrai Franco Fontana, fotografo di fama internazionale che quest’anno ha compiuto ottanta anni ed è stato per questo omaggiato con varie mostre, mi fece un augurio: “Tieni sempre accesa la luce sulla tua strada, e che sia a colori!”
Già, i colori, anima della vita.
 «Il colore è il luogo dove l’universo e la mente si incontrano» diceva Paul Klee.
Definizione perfetta per sue opere.
Le fotografie di Fontana, realizzate senza alcuna manipolazione digitale, parlano di paesaggi urbani, di campi e di distese di erba, e sono rigorose e dinamiche, sobrie seppur ricche di una forte tensione interiore che le anima. E colorate. Coloratissime.
«Per un fotografo è importante rendere visibile l’invisibile - dice Fontana - e la macchina fotografica da sola non fa niente senza il pensiero. Queste sono fotografie di pensiero che diventano archetipi» e aggiunge «per me la fotografia non è né una professione né un mestiere, è la mia vita».
Il colore, protagonista assoluto delle sue opere, è una sensazione fisica, un’interpretazione psicologica ed emozionale, un’esplosione di reale nata attraverso inquadrature ristrette e precise.
I suoi colori sono trovati senza artifici, senza filtri e senza alcun processo alterante o magnificante la realtà.
Ed ecco allora che anche gli «asfalti», pezzi di strada fotografati in giro per il mondo, dalla sua Modena a New York, diventano metafore e suggestioni o immagini di case e muri colorati appaiono come tavolozze incredibili seppur vere e reali o scatti di tratti di mare, onde e cieli dai colori netti e delineati con precisione geometrica.
La realtà è a colori e Fontana ce la mostra così.
E il mondo diventa più bello.

mercoledì 3 settembre 2014

Caravaggio e la storia di san Matteo

Caravaggio - San Matteo e l'angelo - 1599/1602
Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli
Caravaggio affronta direttamente il problema della Storia nei tre dipinti della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, realizzati tra il 1599 e il 1602.
Il primo dei tre, San Matteo e l’angelo, lo dovette rifare ex novo perché la prima versione fu rifiutata dal clero in quanto troppo realistico: leggenda vuole che i grossi piedi terrosi del santo in primo piano avessero procurato una violenta reazione da parte dei prelati.
Non si sa quel che dissero di preciso ma lo si può facilmente immaginare.
Nella Vocazione di San Matteo la chiamata è diretta, personale di Dio, che sorprende l’uomo quando meno se l’aspetta, magari nel peccato. 
Caravaggio - Vocazione di san Matteo- 1599/1602
Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli
Matteo era gabelliere: il luogo è il corpo di guardia, un ambiente angusto, senza sfondo prospettico, debolmente illuminato da una finestra.
I giocatori portano abiti moderni: non è una vecchia storia, è un fatto che accade ora e che potrebbe accadere in qualsiasi momento, a chiunque. La grazia non è un segno che solo all’eletto sia dato vedere: tutti si volgono sorpresi, tranne l’avaro che conta i soldi, come Giuda i trenta denari.
Caravaggio - Martirio di san Matteo- 1599/1602
Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi
 Cappella Contarelli
Nel Martirio di San Matteo l’evento storico, drammatico, è ridotto alla cruda realtà di un atto di violenza, un assassinio vero e proprio.
Si sa dalle fonti che il quadro fu rifatto due volte, l’esame radiografico infatti dimostra che è stato ridipinto sulla stessa tela, per un crescente bisogno di concisione e di intensità.
Lo stesso lampo di luce rivela i tre momenti della vicenda: il santo strappato dall’altare e colpito dai carnefici, lo sgomento e la fuga degli astanti, l’angelo che piomba dal cielo con la palma del martirio. 
C’è, ben chiaro, il ricordo del Miracolo dello schiavo di Tintoretto, il quadro che mezzo secolo prima aveva creato un modo nuovo e più intenso di figurazione drammatica.
Jacopo Robusti  detto Tintoretto
Miracolo dello schiavo  - 1548
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Ma Caravaggio stringe ancora i tempi: là gli astanti commentavano sorpresi e il santo arrivava volando nel cielo per risolvere il dramma, qui si accalcano sgomenti, il carnefice colpisce il santo, ma l’istante della morte è anche quello della gloria e la stessa mano protesa in un gesto di difesa e di orrore coglie la palma dalle mani dell’angelo.