domenica 15 marzo 2015

Paul Camille Guigou e la sua amata Provenza

PAUL GUIGOU - LA CANEBIERE
MARSIGLIA, MUSEE DES BEAUX ARTS
Uno strano destino  quello di Paul Camille Guigou, nato nel 1834 a Villars, un piccolo comune della Provenza, da una famiglia benestante a cui era predetto un futuro tranquillo e sereno.
La vita però non è mai come la si immagina o la si sogna.
Si iscrive all’Istituto di Belle Arti di Marsiglia, una delle scuole più originali di Francia: lì impara a dipingere dal vero, specialmente paesaggi e scene di vita contadina.
E’ il 1854 quando, sempre a Marsiglia, trova un impiego notarile, seguendo così le orme del padre.
Paul, l’animo sensibile da poeta, ama dipingere la sua profumata e assolata terra, i suoi ulivi, la sua gente, le strade illuminate da una luce incredibile.
PAUL GUIGOU - CACCIA ALL'AIGUEBRUN - 1866
Continua a lavorare in quel grigio ufficio ma la sua vita non è quella.
Si sa pochissimo della sua esistenza, nessuna donna è nominata e ho l'impressione che fosse un tipo solitario, quasi al limite della tristezza.
Nel 1862 lascia l’impiego e va a Parigi: una scelta importante e difficile perché da quel momento avrà sempre problemi economici.
Nelle mostre a cui partecipa – dal 1863 espone costantemente al Salon de Refusés - i giurati lo ignorano, lui non vende praticamente nulla, vive dando lezioni private, sempre in lotta per la sopravvivenza, come tanti suoi colleghi.

PAUL GUIGOU - LA LAVANDAIA - 1860
PARIGI, MUSEO D'ORSAY
Per lui era, se possibile, ancora peggio: un continuo su è giù da Parigi alla Provenza lo allontanò ancora di più e lo isolò rispetto agli altri impressionisti.
Dipinse pochissimo Parigi, e anche se ogni tanto frequentava il mitico caffè Guerbois, dove si incontrava il gruppo di impressionisti intorno a Eduard Manet, rimase sempre per i fatti suoi, tenendo quei pittori ‘parigini’ lontani da lui, considerato un ‘meridionale’.
Adesso, come per tanti pittori della sua epoca e di quel genere, è stato riscoperto, i prezzi delle sue opere sono schizzati alle stelle ed esposte nei più importanti musei.
Ma vediamoli i suoi quadri, a partire dal più famoso: la Lavandaia, dipinta nel 1860.
La riprende di schiena, quasi volesse farne un personaggio misterioso, e dall’alto, per far capire la pesantezza e la fatica di quel lavoro quotidiano e perenne.
Il cappello, di paglia e a larghe tese, fa intuire un caldo che opprime, sottolineato dall’ombra grigia sulla blusa bianca, che pare tagliata a metà.
Negli altri paesaggi i suoi colori, densi e granulosi, sembrano impastati con quelli della Provenza.
Pigmenti spenti, quasi che la polvere di quei camminamenti tra gli ulivi o nelle strade cittadine per miracolo si fosse infilata dentro la tele.
PAUL GUIGOU - 1870
GRAND RUE AU BAUX
Colori luminosi, come se il sole si fosse buttato a picco dentro i suoi quadri, sapendo bene che come Paul interpretò la sua abbagliante e intensa luce provenzale, non  c’era davvero nessun altro.
Eppure, i paesaggi e i personaggi di Paul non erano onirici, non rimandavano a un mondo immaginario e meraviglioso, anzi.
Il suo è un realismo profondo, pregno di particolari a prima vista invisibili, che racconta di una vita tranquilla di contadini, di pescatori, di serene passeggiate in città con gli ombrellini per ripararsi dal caldo del sole, di alberi secolari, di barche che veleggiano verso l’infinito.

PAUL GUIGOU - 1869
LA PORTEIRIS
Guardandoli, par quasi di sentire il profumo di lavanda e di ulivi, di rosmarino e di macchia mediterranea, di toccare la polvere e la terra, di ascoltare i ritornelli cantati per strada, di annusare il sudore e la fatica, ma anche di gustare la gioia e la spensieratezza, come fossero pezzi di vita appiccicati alla tela, che acchiappano tutti i sensi, non solo quello della vista.
Un realismo vissuto sulla sua pelle, girovagando qua e là nella sua terra, cogliendo l’attimo fuggente di una ragazza con il cesto sulla testa o delle montagne che si specchiano nell’acqua calma e piatta di un fiume.
O ancora tutte le tonalità del verde delle colline o i colori dei mattoni e degli intonaci delle case dei paesini, o i contrasti della terra rossa con l’azzurro del cielo o gli uccelli che migrano volando tra le nuvole.
Il tutto realizzato con pennellate veloci e sincere, senza sbavature, precise e abbozzate allo stesso tempo: una tecnica che permette di dipingere la vita così com'è, senza trucchi e senza inganni.
Ed eccolo, ineluttabile, il destino malevolo.
E' il 1871, la baronessa Rothschild lo prende a suo servizio come insegnante di disegno.
Per Paul è finalmente la certezza di un futuro sereno e tranquillo, senza più assilli economici e con un lavoro di prestigio.
Ma si sbaglia, la nera signora l’ha preso di mira.
Pochi mesi dopo, il 27 dicembre, muore per un ictus, a 37 anni, lasciando la profumata Provenza orfana del suo cantore.
PAUL GUIGOU - 1860 - ULIVI

 Potete vedere il video su Paul Camille Guigou
sul mio canale YouTube:
https://www.youtube.com/watch?v=ElzJoDoohoM&t=7s


sabato 14 marzo 2015

Animali: storia, nomi, simboli


ALESSANDRO MAGNO SOPRA BUCEFALO A ISSO
100 a.C. - NAPOLI, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE
Sarebbe cambiata la storia senza gli elefanti di Annibale, l’aspide di Cleopatra o le oche starnazzanti del Campidoglio?
Alessandro Magno sarebbe stato invincibile senza il cavallo Bucefalo?
E la letteratura?
Pagine indimenticabili da Omero, con il cane Argo morto per la gioia di rivedere Ulisse tornato dopo 20 anni, alle favole di Esopo con volpi, aironi ed agnelli fino  agli animali-metafora dell’Inferno dantesco o al mastino dei Baskerville inventato da Conan Doyle, papà di Sherlock Holmes.
Senza animali, cinema e tv avrebbero perso miti senza tempo come Lassie, Rin Tin Tin, o Furia per arrivare al mangia-panini Rex.
Ma con quale criterio si è dato il nome agli animali?
VINCENT VAN GOGH - MUCCHE  - 1883 ca.
L’origine di alcuni nomi è onomatopeica: l’upupa, il cuculo e la mucca devono il nome al verso che fanno.
Altri derivano dal modo di vivere: la nottola, il picchio o il formichiere e anche il golosissimo orso non sfugge a questa regola, infatti in russo significa mangiamele.
Curiosi sono i nomi di parentela come barbagianni, vale a dire zio Giovanni.
Emergono varie curiosità: la donnola, odiata dai villici per le razzie di galline, è chiamata con nomi di femmine giovani e belle come signorina, carina... e il motivo è cercare di ingraziarsela con lusinghe per evitare ulteriori danni.
In tutti i dialetti, a particolari animali a cui si dava valore religioso, vengono appioppati nomi tipo la gallinella di Dio per la coccinella, che peraltro è chiamata con più di cento nomi diversi, addirittura femminili quali Maria o Giovanna.
MICHELANGELO BUONARROTTI
IL PECCATO ORIGINALE - 1502
CITTA' DEL VATICANO - CAPPELLA SISTINA
Esistono infinità di credenze legate ai comportamenti degli animali: in Europa si crede che se la volpe fa il bagnetto ai suoi piccoli (cioè li lecca) verrà la nebbia, oppure se in una giornata di sole il gatto si lecca e si passa la zampa dietro le orecchie, verrà a piovere.
Chi ha mai ucciso un ragno di sera sfidando la scaramanzia o attraversato la strada subito dopo che è transitato un innocuo, magari spaventatissimo ma nerissimo gatto?
Di animali, naturale compendio dell’uomo, si è sempre parlato e scritto, da Aristotele, che guardava razionalmente a questo universo, ai trattati del Medio Evo, in cui si accostava un animale ad un simbolo.
STELE SEPOLCRALE DI LICINIA AMIAS - III SECOLO
ROMA, MUSEO NAZIONALE TERME DI DIOCLEZIANO
E’ un mondo affascinante e leggendario giunto fino a noi: il serpente come simbolo del male (non fu proprio quel rettile a spingere Eva a cogliere la vietatissima mela?), il pesce-acrostico simbolo di Gesù (ixzus in greco vuol dire pesce e le iniziali greche formano "Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore"), la scimmia simbolo del peccato (perché poi se è così simile all’uomo...?) e la fenice che risorge dalle proprie ceneri, immagine della Resurrezione di Cristo.
Si parla di animali fantastici come l’unicorno ricordato da Marco Polo e riconosciuto dall’astuto veneziano come il rinoceronte, o il centauro che incontrò perfino Sant’Antonio Abate.
VITTORE CARPACCIO - 1502 - SAN GIORGIO E IL DRAGO
 VENEZIA, SCUOLA GRANDE DI SAN GIORGIO DEGLI SCHIAVONI
L’idea di una bestia strana, misteriosa ed inquietante sopravvive anche oggi: non si contano le ricerche per scovare Nessie, il mostro di Loch Ness, lo jeti o il lupo mannaro.
Per fortuna c’è ancora spazio per la fantasia positiva: Walt Disney ha fatto sognare milioni di bambini e non solo con i suoi personaggi così umanamente veri ma rigorosamente animali, da Topolino a Paperino all’orso Baloo, o Charles Schultz che ha invaso il mondo di intelligenza e ironia con Snoopy, il più atipico tra i fedeli amici dell’uomo.
 
Dedicato a tutti i miei amici di Google+ che amano gli animali

sabato 7 marzo 2015

Gino Rossi: la figura leggendaria del pittore folle

GINO ROSSI - PAESAGGIO AD ASOLO - 1912
Colto, raffinato, portato per gli studi letterari, nato a Venezia nel 1884 da una famiglia originariamente ricca, Gino Rossi, per completare la sua cultura lascia la laguna e, nel 1907, parte per Parigi.
I colori e le forme delle opere di Paul Gauguin lo stordiscono.
Decide di andare in Bretagna, seguendo così le orme di quel che poi sarà il pittore di Tahiti.
Tornato a Venezia, oltre a tante idee ed emozioni, porta con sé anche la sifilide, cosa non rara in quei tempi, che con il passare degli anni gli causerà epilessia, disturbi visivi e grande sofferenza psicologica.
Il suo primo successo lo deve alla mostra di
Ca’ Pesaro, il museo di arte moderna della città lagunare: è il 1910 e dall’anno successivo andrà a vivere nell’isola di Burano, quasi una sorta di esilio volontario, forse per il suo carattere schivo e taciturno, per il suo spirito polemico e aristocratico.
GINO ROSSI - PRIMAVERA IN BRETAGNA, L'ALBERO
TREVISO, MUSEI CIVICI
E di quel periodo sono i quadri più belli - paesaggi di Burano, della Bretagna, di Asolo, del Montello -  dall’esuberanza innata, con colori luminosi capaci di ricreare il fascino di luoghi visti attraverso occhi diversi.
Semplificò le immagini senza insistere sui particolari, ma con l’albero, che ritornerà anche in molti altri dipinti, che sembra nascondere un’anima.
Nel 1909 dipinge la Fanciulla del fiore, che lui considera la sua “poesia più bella”.
GINO ROSSI - 1909
FANCIULLA DEL FIORE
E’ il suo capolavoro: una ragazza imbronciata, con le mani grandi, un’immagine austera, impenetrabile, con la bellezza dei due vasi di fiori, messi lì, proprio all’altezza del viso, esaltati dal blu, ripensando a Gauguin, alle sue campiture piatte e alle sue forme sigillate.
E’ il periodo in cui matura la sua poetica delle figure senza paesaggi e dei paesaggi senza figure, come la Testa di pescatore o Descrizione asolana.
Nel 1912 torna a Parigi, espone insieme a Modigliani, ma al suo ritorno una delusione d’amore terribile: la moglie, Bice Levi Minzi, anch’essa pittrice, lo abbandona per lo scultore Oreste Licudis.
Nel 1916 parte per la guerra, ne vede gli orrori e la violenza, va a finire in un campo di prigionia.

Quando torna, è sconvolto.
La sua anima, troppo sensibile, non regge il peso dell’infelicità: “Ho perduto tutto … dovrò curare la mia salute. Ho sofferto tanta fame … tutte le sofferenze morali” scrive in una lettera nel 1918.


GINO ROSSI  - 1924
NATURA MORTA CON BROCCA
Come era cambiato lui, così era cambiata la sua pittura, che vira verso il cubismo, guardando alla lucida lezione di Cezanne, con il colore fantastico che vuole trascendere la realtà invece di raffigurarla.
Ecco allora Fanciulla che legge, Testa di ragazza o Natura morta con brocca, dove l’idea cubista viene declinata mettendo gli oggetti poggiati sul tavolo – pipa, bicchiere, brocca, portafrutta, busta, bottiglia – nell’omogenea atmosfera tonale del blu.
GINO ROSSI - 1926
IL CORTILE DEL MANICOMIO

Ma la vita di Gino è ormai in discesa: viene ricoverato nel manicomio di sant’Artemio a Treviso.
E’ il 1926 quando dipinge il suo ultimo, drammatico, solitario, quadro: Il cortile del manicomio.
Un'opera dai colori scuri, tristi, freddi, lontana anni luce dai primi paesaggi solari e allegri della Bretagna.
In quel cortile, visto dalla finestra di una camera immaginiamo orribile, Gino lancia il suo grido contorto e disperato di dolore.
Passerà ancora più di vent’anni girovagando da un manicomio all’altro, senza più toccare pennello e colori.
Morirà il 16 dicembre del 1947.
E come per tanti artisti sfortunati in vita - e il parallelo con Vincent Van Gogh viene spontaneo - la critica capirà, post mortem, la sua grandezza e il suo  straordinario contributo al rinnovamento dell’arte italiana.


Sul mio canale YouTube trovate anche il video con molte altre immagini: