mercoledì 2 agosto 2017

Giovanni Boldini e la Belle Époque

Giovanni Boldini - La signora in rosa
Ferrara, Museo Giovanni Boldini
Pochi artisti sono riusciti ad intrecciare così profondamente la propria esperienza umana con lo spirito dell’epoca a cui appartengono, fino a diventarne l’interprete per antonomasia, come ha saputo fare Giovanni Boldini con la Belle Époque.
E’ dal numero 10 di via Volta Paletto a Ferrara che inizia l’avventura di Giovanni e proprio lì nasce sabato 31 dicembre 1842.
Suo padre, Antonio, pittore e restauratore, fu il suo primo maestro, da cui imparerà perfettamente l’uso di colori e vernici. Ventenne, va a Firenze, quando ha già ottima dimestichezza con ritratti e paesaggi.
Il Caffè Michelangelo sarà una delle sue mete quotidiane dove incontra i Macchiaioli, iniziando così
una sua via personale verso il realismo.
Giovanni Boldini - Autoritratto - 1892
Firenze, Galleria degli Uffizi
Da Firenze si sposta a Londra, ambientandosi assai bene tra i vari club e i salotti dell’alta società.
E’ nella capitale d’oltre Manica che studia i grandi ritrattisti inglesi settecenteschi e ottocenteschi e segue le nuove tendenze di Turner e Constable, che influenzeranno moltissimo la sua pittura.
Ma è a Parigi, dove giunge nel 1871, che farà fortuna. Vive con Berthe, la sua bellissima modella, al numero 12 di Avenue Frochot.
Piccola parentesi: Giovanni era bassissimo, non superava il metro e mezzo di altezza, ma aveva fascino da vendere, sì che ebbe un turbinio di amanti e di donne meravigliose, tra cui la contessa Gabrielle de Rasty, anche se si sposerà solo nel 1929, ottantasettenne, con Milly Cardona, trentenne giornalista della Gazzetta del Popolo di Torino che conobbe a Parigi tre anni prima quando lei lo intervistò, e che gli sarà compagna fedele per gli ultimi tre anni di vita, sostenendolo e dividendone il crepuscolo.
A Parigi incontra De Nittis, Degas, Mariano Fortuny che lo introducono nel mondo artistico della città, grazie anche alla Galleria Goupil, i mercanti d’arte olandesi per cui lavorava anche Van Gogh.
Diventa molto amico di Manet e soprattutto di Monet: la loro pittura è vicina. I tre sono legati anche dalla passione per il teatro e per la danza e Giovanni ama la vita elegante, la mondanità e le belle donne.
Sul piano prettamente artistico, Boldini coglie la dinamica della rappresentazione istantanea, della scintilla di vita irripetibile e fugace, ma a differenza dello stile en plein air degli Impressionisti, molto vicine alle suggestioni dei Macchiaioli che aveva da poco lasciato, predilige l’interno del suo studio. Boldini coglie alla perfezione il motivo del vero, perché la sua pittura è basata su una velocità di esecuzione in quanto giocata sulla figura umana, sulla donna che viene sottratta alla quotidianità per essere trasfigurata in una condizione regale, di divinità terrena basata sulla bellezza.
Ed è soprattutto rispetto alla figura femminile che la sovrapposizione tra la vita di Boldini e la Belle Époque diventa totale.
In questi anni il costume e la moda diventano fenomeni di massa e la donna sente che è arrivato il momento di assumere un ruolo dove la femminilità possa essere esibita con una maggiore libertà espressiva.
Giovanni Boldini
Ritratto di Franca Florio
Collezione privata
Giovanni gioca sulle corde della sensibilità femminile, ma non si limita alla riproduzione della bellezza, indugiando piuttosto sulla consapevolezza di un ruolo, in cui il fascino della sensualità è esaltato anche dall’abbigliamento.
La donna, ‘liberatasi dalle ingabbiature che costringevano il suo corpo nella crinolina’, privilegia gli abiti che ne possano valorizzare la figura e svelarne generosamente le grazie.
E’ una donna spensierata e galante, consapevole della propria forza seduttiva.
I corpi traspaiono dalle mussole, dalle arricciature, dai volants e dalle piume in un clima contraddistinto da una sensualità dilagante.
I nuovi abiti celebrano la rinnovata snellezza dei corpi e risultano adeguati alle molteplici attività e libertà che non sono più precluse all’altra metà del cielo. In questo delicato e controverso passaggio dell’emancipazione femminile, la moda acquisisce le sembianze di uno specchio della società: uno specchio ricco di seduzioni per l’arte.
Nella stagione della Belle Époque l’arte celebra il mito della femme fatale, della donna di charme, che nutrirà a lungo l’immaginario artistico fino a incidere profondamente anche nelle avanguardie novecentesche.
E le belle donne facevano a gara per farsi ritrarre da lui, tra decolletès e piume di struzzo, tra pellicce e gioielli, tra fiumi di seta e sguardi ammiccanti.
Due sono oltremodo significativi: il Ritratto di donna Franca Florio, del 1924 anche se iniziato nel 1901,  e passato di mano in mano attraverso aste milionarie. La Florio era la regina dei salotti palermitani e Boldini fu costretto a ritoccare il dipinto a causa della risentita gelosia del potente marito. Il quadro è straordinario, realizzato con pennellate veloci e guizzanti, come se volesse cristallizzare il movimento della donna nel suo abito di velluto nero fasciante.
Ma era la sua tecnica: non voleva che le sue modelle stessero ferme, le faceva camminare, muovere, per riuscire a coglierne il movimento in ogni loro particolare.
Giovanni Boldini - Ritratto della contessa Luisa Casati - 1914
Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna
Giovanni Boldini - 1886
Ritratto di Giuseppe Verdi
Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna
Il secondo, il Ritratto della contessa Luisa Casati, del 1914, alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, che consacra la leggenda della donna, ricchissima ereditiera: amante di D’Annunzio, eccentrica, collezionista d’arte e opera d’arte lei stessa, musa degli esponenti del Futurismo e morta in povertà per gli spaventosi debiti accumulati durante tutta  la sua vita.
E’ ritratta in un sublime dipinto dove la nobildonna, icona di sensualità, è esaltata da un tripudio di piume di pavone e aleggia un qualcosa di conturbante, ma di straordinario effetto.
E ancora il Ritratto di Giuseppe Verdi, realizzato a pastello nel 1886 e ora a Roma alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, dove il sommo compositore è visto a mezza figura, con fascia bianca al collo e cilindro ed è di una sorprendente vivacità espressiva.
Leggenda vuole che Verdi non trovasse il tempo di posare per Boldini, tanto che il pittore lo invitò a colazione per averlo tutto per lui almeno un’ora e poterlo così ritrarre.
 
Quello di Verdi è sicuramente uno dei più bei ritratti del Novecento.
Gli ultimi anni della sua vita, confortati da Milly, sono un vero e proprio crepuscolo, velato dall’ombra buia della cecità, dopo le grandi gioiose fantasmagorie di un’esistenza piena e operosa, ricca di splendidi immagini colorate di un’epoca quanto mai raffinata ed elegante, non priva di grandi passioni e di alta poesia.
Giovanni muore sabato 11 gennaio 1930 a Parigi ma volle essere sepolto nel cimitero di Ferrara vicino ai suoi genitori.

mercoledì 26 luglio 2017

lunedì 17 luglio 2017

Quarto Stato: il manifesto politico di Pellizza da Volpedo


Giuseppe Pellizza da Volpedo - Quarto Stato - 1901
Milano, Museo del Novecento
E' il manifesto dell'orgoglio proletario e della sua avanzata verso un futuro migliore, verso il progresso, divenuto una vera icona per la classe operaia e non solo.
L'idea di lanciare completamente la sua arte in favore dei lavoratori, gli venne dopo aver visto uno sciopero nelle sue terre. Una presa di posizione a lungo ponderata e studiata sui libri che avevano come argomento la Rivoluzione Francese, che iniziavano a trovarsi anche in edizione economica, e che lui letteralmente divorò.
Ci vollero parecchi anni prima che Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato il 28 luglio 1868 nato nel paese  in provincia di Alessandria da cui prese il nome, arrivasse a questo risultato.
Giuseppe Pellizza da Volpedo - Ambasciatori della fame - 1891
Collezione privata   
Una decina di anni prima, aveva dipinto un bozzetto, Ambasciatori della fame: è l'embrione di quel che sarà il suo capolavoro.
La scena è questa: una schiera di braccianti che avanza all'apparenza frontalmente, guidata in primo piano da tre persone a grandezza naturale. L'uomo al centro è affiancato, in posizione leggermente arretrata, da un secondo lavoratore più anziano e da una donna con un bimbo in braccio.
Il tutto si svolge su una piazza illuminata dal sole chiusa sul fondo da macchie di vegetazione e da una porzione di cielo bluastro.
La posizione dei personaggi, tutti reali e con nome e cognome, fu lungamente studiata da Giuseppe e lo si può sapere dai tantissimi -  e bellissimi - disegni preparatori.
Ho scritto poc'anzi 'all'apparenza frontalmente': già, perché né i tre in primo piano, né la schiera dei braccianti dietro, sono su un'unica linea, bensì hanno una impostazione leggermente a cuneo e  questo effetto è ben evidenziato dalle loro ombre.
Perché li ha voluti così?
Per evitare che fossero una massa statica e pesante e a suggerire, nel contempo, il fatto che fossero davvero in marcia.
 
Una marcia implacabile.
Un dipinto pacato che ha una forza fenomenale e indistruttibile, una forza interna che lascia senza fiato, con lo stomaco aggrovigliato, con il cuore impazzito, con il groppo in gola.
E lo si vede da un particolare: il passo, deciso e sicuro dell'uomo in primo piano con il gilet rosso, il colore più acceso in mezzo ai toni del marrone e del verde. Ed è un passo colmo di dignità, di quella dignità che si raggiunge solo ed esclusivamente con il lavoro. 
Quarto Stato è un dipinto che emoziona, che non ci si stanca di guardare, che si ammira in quella prima stanza del museo milanese che sembra essere una sorta di santuario laico del lavoro, dell'abbruttimento della  fatica, del sudore, della miseria ma soprattutto del riscatto.
Lo si sente e lo si percepisce come una spinta per migliorarsi, per avere successo, per non sentirsi una pedina nel bel mezzo dei giochi di potere.
Giuseppe Pellizza da Volpedo ci ha regalato la consapevolezza del nostro valore, della propria forza, qualunque lavoro si faccia, che sia manuale o intellettuale.
Questa massa unita che cammina verso il domani, vale assai di più di qualsiasi discorso sindacalista o politico, anche se urlato in piazza in mezzo allo sventolio di bandiere, perché è un quadro 'vero' ed ha una modernità assoluta.
Dovrebbe essere anche un 'santino' da tenere in tasca per chi cerca lavoro, per dare più forza al proprio impegno, per chi lo ha ma è cosciente che basta un nonnulla per perdere i diritti, anche quelli più vitali e indispensabili, per chi è frustrato da scarsa soddisfazione economica e umana.                           
Ma deve essere anche di monito a chi il lavoro lo tratta male.
Un severissimo monito a persone che hanno il senso di responsabilità e lealtà sotto le scarpe, ma si prendono beffa di un simile tesoro. Le tante notizie di cronaca raccontano di assenteismo, menefreghismo o incuria e questo - ahimè - succede ogni giorno.
Perché sappiamo che è faticoso, che ci fa arrabbiare, che qualche volta o spesso ci pesa, ma sappiamo anche che il lavoro è vita.  
La storia ci racconta che Giuseppe si impiccò nel suo studio il 14 giugno del 1907, preso dalla disperazione per la morte della moglie, Teresa Bidone, una contadina sposata nel 1892.                                                                                 
 
Giuseppe Pellizza da Volpedo - Quarto stato - Particolare