venerdì 27 marzo 2015

La follia e il bello: una discussione infinita

VINCENT VAN GOGH - AUTORITRATTO - 1887 -
AMSTERDAM, RIJKSMUSEUM
"Follie! Follie!" cantava Violetta in un'aria tra le più belle della Traviata verdiana.
E non è azzardato accostare la follia al «bello» dell'arte.
Esempi?
Vincent Van Gogh passò cinque anni in un manicomio dove peraltro dipinse i suoi autoritratti più eclatanti, dai colori incredibili per la percezione deviata che di essi ne hanno gli schizofrenici, ed era matto sul serio se giunse perfino a tagliarsi un orecchio, ma rimane pur sempre uno dei più grandi artisti della storia dell'arte.
Filippo De Pisis era affetto da sifilide terziaria, malattia senile che provoca dissociazioni, e in quel periodo dipinse veri capolavori.
E come scordare Modigliani?
I suoi ritratti dipinti sotto l’effetto dell’assenzio tolgono il fiato.
FILIPPO DE PISIS
BASILICA DI SAN MARCO - 1940
C'è un bello dentro il brutto e un brutto dentro il bello.
Dichiarazione valida anche per l'espressionismo che nasce da un mondo in distruzione, fatiscente, che si rompe, come l'equilibrio mentale di tanti artisti che ne fecero parte: «L'arte è l'espressione più alta della mente umana, anche se ci sono cervelli rotti».
E pensare che il mondo intero cerca con tutti i mezzi di essere il più normale possibile, senza riuscire a guardare oltre la barriera criptata della bellezza della follia.
GIORGIONE - VENERE DORMIENTE - 1510
DRESDA, GEMALDEGALERIE
Già, la bellezza.
Un'idea di bello che sia accettata da tutti ancora non esiste, è un tema assolutamente aperto da sempre del quale hanno discusso infiniti critici e docenti di estetica e su cui sono stati versati oceani d'inchiostro.
E la verità, si sa, è ardua da trovare.
Forse la ragione alla fine sta nella massima popolare indice di grande saggezza atavica, per cui «non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace».
E allora potrebbero diventare belle anche certe espressioni di arte contemporanea, perché da quando gli impressionisti smisero di impressionare, l'arte moderna ha scelto il brutto, allontanandosi dal concetto di bellezza e di sublime della cultura classica, afferma più di un critico.
A questo punto un'altra domanda sorge spontanea.
GIOVANNI BELLINI
CROCEFISSO - 1505
PRATO, PALAZZO ALBERTI
Dov'è finito allora il classico concetto di kalòs venerato dai greci e di  pulchrum tanto amato dai latini?
Mistero.
Anche l'arte cristiana per molti se ne allontana, se considera bello il crocefisso.
Ma  bisogna distinguere la forma dal contenuto, quindi il crocefisso non è l'immagine di un cadavere appeso a un palo di legno, ma un simbolo.
Quindi un artista certamente sì, può quindi permettersi il lusso della follia ma non i filosofi o altre categorie, così come sarebbe meglio non mettere una città nelle mani di un architetto schizofrenico.
Follia dunque compatibile con l'arte ma non con le altre attività umane.
Conclusione: l'essere fuori di testa può essere utile per realizzare opere d'arte, per governare uno stato molto meno.

domenica 22 marzo 2015

Venezia e l'Islam: guerre e arte

GIANDOMENICO TIEPOLO - LANCIERE TURCO - 1760/1770
NEW YORK, THE METROPOLITAN MUSEUM OF ART
A Venezia, nel Fondaco concesso ai Turchi nel 1621 c’è il sapore dell’ambiguità presente in ogni mito, segno più di allontanamento che di rapporto intenso, di un grande nemico che viene a mancare, che si guarda, si controlla, a cui si dà e da cui si prende molto ma che si accetta solo quando si comprende che è divenuto innocuo.
Sono i Turchi del Tiepolo che abitano il Fondaco come potrebbero apparire nella scenografia del Turco in Italia di Rossini, non gli Arabi delle Crociate.
VENEZIA
BASILICA DI SAN MARCO E PALAZZO DUCALE
E solo camminando per la città si può capire come si è giunti a quell’ambiguità, erede di un glorioso passato nato dal lavorio costante di abili mercanti e dall’odore acre di lunghe scie di sangue, scoprendo anche negli anfratti più segreti la complessità del legame millenario di Venezia con l’Islam, quel darsi e prendersi in un rapporto di battaglie vinte e perse, di scambi di schiavi e di merci ma anche di anime e di convenienze.
Un esterno che si riflette nella certezza filologica di manufatti che disvelano nella loro storia la miriade di segni rinchiusi nell’architettura della città, dalla Basilica costruita da architetti bizantini alle merlature di Palazzo Ducale, che evocano i profili dei tetti delle moschee mamelucche.
L’artista veneziano è avido di apprendere e fa suoi i modi dei paesi dell’altra sponda del Mediterraneo e se oggi il vetro veneziano è sinonimo di qualità nel mondo intero, questo affonda le sue radici nell’anno 1204, l'anno della Quarta Crociata.
COPPA IN VETRO - IRAN - X SECOLO
MONTATA A COSTANTINOPOLI NELL'XI SECOLO
VENEZIA, TESORO DI SAN MARCO 
Nell’immenso bottino riportato dal saccheggio di Costantinopoli, trovano posto anche alcuni vetri famosi, oggi nel Tesoro di San Marco, che la dicono lunga sull’ammirazione dei veneziani verso gli islamici.
Un esempio su tutti: la coppa iraniana del X secolo in vetro di un celeste incredibile e montata in argento e pietre a Costantinopoli nell’XI secolo.
Sei centimetri di base, sette e mezzo di altezza per un diametro massimo di quasi diciannove, iscritta a caratteri cufici sotto la base con ognuno dei cinque lobi decorato a rilievo con una lepre in corsa.
BICCHIERE ALDREVANDIN
La strada verso l’eccellenza vetraria è aperta: i veneziani importano, sulle rotte di Alessandria, Tiro e Antiochia, non solo informazioni tecnologiche, ma la materia prima più pregiata, ossia il lume carino, una soda di prima qualità che diventa obbligatoria per garantire la qualità superiore del prodotto finito, forme particolari che saranno poi dei bicchieri Aldrevandin smaltati e dorati, i decori a fojami, non figure, che i veneziani useranno a smalto blu sul lattimo.
Un bottino oltre il bottino, un’incessante ruberia di idee e tecniche che le abili mani dei serenissimi trasformeranno in capolavori.
Così come nel periodo di ascesa al trono ottomano di Solimano il Magnifico, dal 1520 al 1566, intensificandosi le missioni diplomatiche e gli scambi di doni per la ricca presenza di mercanti e nobili veneziani, artigiani e artisti di tutte le corporazioni abbracciarono lo stile islamico.
AL-BUKHARI - SAHIH
1529 - TURCHIA
LONDRA
NASSER COLLECTION
 
Basta osservare i libri di motivi decorativi raffiguranti moltitudini di arabeschi pubblicati in questi anni o lo zelo dei tipografi veneziani nello stampare a caratteri mobili testi arabi per rendersi conto di una tendenza estetica volta a creare un nuovo gusto.
E’ turca e del 1529 la legatura in marocchino nero del Sahih di Al-Bukari, opera canonica del IX secolo da leggersi nelle moschee imperiali ottomane durante i mesi del ramadan, con il medaglione centrale dorato appuntito a forma di mandorla e i cantonali, sempre dorati, concavi ai quattro angoli con decorazioni tipiche islamiche che ispirarono le legature della Venezia rinascimentale per ricoprire nomine di dogi e procuratori di San Marco, oltre ad essere usate su armi e armature, piccoli accessori e strumenti musicali.
Venezia dunque che si inchina alla raffinata eleganza artistica degli infedeli?

POLENA DELLA BASTARDA
DEL COMANDANTE FRANCESCO MOROSINI
VENEZIA, MUSEO STORICO NAVALE




Assolutamente sì, ma mai lascerà loro lo scettro di Regina del Mare.
I Turchi, dopo la disfatta di Lepanto, sul mare erano sempre più deboli e che poteva esserci di meglio di un colpo di grazia morale e definitivo, mettendo uno di loro in catene, uno schiavo seminudo, con la testa scoperta, intagliato dagli scultori dell’Arsenale, come polena sui fianchi di poppa della bastarda del comandante in capo Francesco Morosini, il Peloponnesiaco, l’eroe simbolo della potenza della Serenissima flotta?

giovedì 19 marzo 2015

Auguri papà!


OTTAVIO ARTALE CON CLAUDIA CARDINALE
 E MAURICE AGOSTI
VENEZIA, GRAN TEATRO LA FENICE, GIUGNO 2009
Papà era un uomo affascinante.
Amava la vita, la musica, il ballo, l’arte, gli sport e anche le belle donne.
Non scriveva mai, anche quando mi mandava qualcosa per posta: se era prolisso metteva un ‘ciao papi’, nulla di più.
Eppure quando passò a Venezia con me gli ultimi mesi di vita, decise che era arrivato il momento di scrivere.
Era medico, di quei vecchi medici condotti che non esistono più e in tutti quegli anni ne aveva viste di tutti i generi ma lui voleva raccontare le emozioni della sua vita più che i fatti.
Aveva già trovato  il titolo di quei pensieri: “La vita è”.
Oggi è la festa di tutti i papà e questo è il mo personalissimo omaggio a un uomo che ha segnato la mia vita, nel bene e nel male, e di cui ero, come forse tante figlie femmine, innamorata. 
Cosa, questa, che ha creato non pochi problemi nella mia vita sentimentale, perché mai nessuno era come lui.
OTTAVIO, ADRIANA, ROSSANA E ALESSANDRA ARTALE
BADALUCCO (IM), 1960 CIRCA
Tant’è.
Queste qui sotto sono le uniche frasi che ha scritto.

E  ve le voglio regalare.

“Come si può definire un’emozione?
Uno stato d’animo?

Uno sconvolgimento improvviso della circolazione? (“emo” vuol dire sangue e “motio” è movimento, ma questa è una mia personale interpretazione)
O una scarica di adrenalina?
Comunque, una vita senza emozioni non vale la pena di essere vissuta.
Questa però non vuol essere la mia autobiografia.
Nonostante la mia presunzione (alimentata da quanti mi hanno sempre sopravalutato) e la vanità maschile (superiore o perlomeno diversa in genere da quella femminile) che mi ha sempre posseduto, non voglio pensare che qualcuno sia interessato a prestare attenzione ad un racconto della mia vita, ma credo che possa esserci qualche motivo per riflettere su quanto avrò da dire su ciò che ha movimentato la mia vita e far pensare che comunque abbia valso la pena di vivere, anche se con qualche rimpianto, per occasioni perdute e qualche rimorso per errori commessi che avrebbero potuto essere evitati.
Le emozioni che certi fatti hanno suscitato in me sono rimasti come ricordi indelebili, siano piacevoli o meno da rievocare quando si ripercorre il corso della propria esistenza, ma che fanno anche pensare agli errori che si sono commessi o alle cose positive che possono essere state fatte.
Dopo questa generica premessa di filosofia spicciola, frutto di una esperienza maturata in oltre ottantadue anni, cercherò di raccontare e di spiegare (se ce ne sarà bisogno) ciò che dentro di me ha suscitato reazioni fin da bambino, che mi hanno lasciato profonde tracce nel corso degli anni e che hanno in larga parte condizionato la mia vita.
Quello che mi accingo a scrivere, ma non so se avrò voglia, tempo e vita per finire, vuol essere solo una carrellata delle circostanze che mi hanno procurato le emozioni di cui credo di aver descritto il mio pensiero.


OTTAVIO ARTALE NEL 1951
 DOPO LA LAUREA
L’uso della prima persona è semplicemente costituito dal fatto che le emozioni (e i ricordi) di cui scriverò sono soltanto i miei, non volendo né potendo cercarne in nessun altro.
Ma la vita non è solo buio e difficoltà, c’è tanta gioia e luce, ci sono momenti e periodi felici, ci sono emozioni positive che ti fanno amare la vita e ti aiutano a viverla tutta, mentre scorre , lenta e veloce, fino alla fine che sai che ti aspetta ma che non ti deve far paura.
Ora che mi sento mi sento ovviamente vicino alla fine (sono vecchio, molto malato e, mi sia consentito, anche stanco), cercherò, andando indietro nel tempo, di rivivere le emozioni che hanno caratterizzato i momenti e le fasi più importanti della mia vita”.
 
Ad maiora, papà!