venerdì 28 novembre 2014

I pittori: tutti narcisisti!

 
ANTONIO CANOVA - 1792
Per lo più egocentrici, consci delle loro stupefacenti capacità di far meraviglie con un pennello in mano, quasi tutti i pittori non hanno resistito alla prepotenza del loro ego e hanno lasciato traccia di sé, di com'erano, di come si vedevano, del loro fascino e qualche volta anche dei loro difetti.
C’è pure l’evidente autocompiacimento con cui un trentacinquenne Antonio Canova si mostra sicuro di sé e del suo successo, in veste di pittore, guardando verso di noi come nello specchio funzionale  a ritrarsi, pennello in mano, sulla tela.
GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO - 1899
O quello, forse meno scontato, con cui Pellizza da Volpedo ci scruta, severo e meditabondo, in piedi, davanti al suo studio, le mani in tasca, circondato da una complessa simbologia come il teschio, il ramoscello di rosa o i vecchi libri a trasmetterci la sua fede sull’immortalità dell’arte.
O, ancora, l’Autocaffè di Giacomo Balla già post-futurista e la decorazione alle sue spalle ne è  l’ultima labile traccia, che si rappresenta nella sua realtà quotidiana e rassicurante, quasi trasfigurandola, nei colori e nelle linee calde e soffuse.
GIACOMO BALLA
AUTOCAFFE' - 1928
Sono alcuni autoritratti della collezione della Galleria degli Uffizi, che tracciano un curioso quanto interessante itinerario pittorico dal XIV secolo ai giorni nostri.
Il museo fiorentino, infatti, possiede una collezione di circa 1.700 autoritratti, la più importante al mondo, avviata nel 1664 dal cardinale Leopoldo de’ Medici, con la committenza al Guercino di un dipinto di sé stesso.
Tra questo particolare genere di dipinti, gli Uffizi hanno capolavori assoluti come il celeberrimo autoritratto di Raffaello, quello di Rembrandt e di Velasquez, o di un anziano Tintoretto, solo per citare alcuni dei più famosi.
RAFFAELLO SANZIO  - 1506
Ma anche opere cosiddette ‘minori’ ma non meno interessanti nel proporre questo meccanismo di introspezione psicologica riportato sulla tela attraverso l’interpretazione della propria immagine e, insieme, l’inevitabile autocelebrazione di essa.
E’ in fondo questo il vero fascino di questa collezione – al di là del puro godimento estetico per una serie di capolavori della pittura – perché l’autoritratto, oltre che una performance pittorica venata di narcisismo, diventa in qualche modo anche il marchio di fabbrica del linguaggio artistico di chi lo esegue.
Osservare per credere.
ANTONI TAPIES -- 1923
Tra i contemporanei quello proposto da Antoni Tapies, emblema dell’informale, in una sintesi estrema rappresentata dal rettangolo materico in bianco su cui l’artista ha inciso le sue iniziali inscrivendole in un universo di segni e linee.
CARLO DOLCI - 1674
Ma ciascuno potrà trovare il “suo” autoritratto, che sia quello barocco e cristallino nel suo realismo fotografico del Sassoferrato o quello concettuale, nel mostrare sé stesso con il proprio ritratto in mano con una dolente ironia, di un altro grande pittore seicentesco come il fiorentino Carlo Dolci o ancora quello di Gian Lorenzo Bernini, enfatizzato da una luce calda e avvolgente che intensifica l'espressività dello sguardo e la fiera bellezza dei lineamenti. 



martedì 25 novembre 2014

Violenza e piacere: l'amore secondo Bernini

GIAN LORENZO BERNINI
RATTO DI PROSERPINA
ROMA, GALLERIA BORGHESE
Ah l’amore!
Il sentimento dalle mille sfumature e dalle innumerevoli sfaccettature, dalle più romantiche e delicate a quelle più focose e sanguigne.
E innumerevoli sono anche i modi in cui l’amore è stato declinato nell’arte, sia in pittura che in scultura.
In questo campo il più grande e talentuoso è stato Gian Lorenzo Bernini, nato a Napoli nel 1615 da padre anch’esso scultore.
Dotato di incredibile manualità, la sua grandezza sta nell’aver avuto una sconfinata fiducia del suo essere padrone della tecnica, che lo rese capace di realizzare tutto ciò che desiderava.
Dalle sue sculture ottiene la morbidezza della seta, il tepore e il colorito della carne, la leggerezza dei capelli, lo stormire delle fronde, ma soprattutto insegna ad immaginare.
E lo fa con il gioco della luce, con la nuova estetica del Barocco che ricerca sempre le linee curve per esprimere slancio, vitalità e movimento.
Tra le prime opere che realizzò, tra il 1615 e il 1625,  ci furono le quattro sculture per il cardinal Scipione Borghese che lo resero giustamente subito famoso.
GIAN LORENZO BERNINI
RATTO DI PROSERPINA - PARTICOLARE
Nel ratto di Proserpina riesce a rendere visibile l’amore violento di Plutone verso la bellissima dea delle messi.
Si immagina davvero uno stupro, con il terrore nel volto della ragazza, giovane e indifesa contro un bruto, le mani di lui che la afferrano con violenza fino a farle penetrare le dita nelle cosce e nel fianco di un marmo che sembra molle come il burro e il disperato tentativo di lei di liberarsi con un braccio dalla forza bruta, ma invano. 
GIAN LORENZO BERNINI
APOLLO E DAFNE
ROMA - GALLERIA BORGHESE
O ancora Apollo che vuole disperatamente Dafne, che per sfuggirgli chiede alla madre Gea di essere tramutata in una pianta di alloro piuttosto che cedere alle voglie carnali e lussuriose di quel dio così bello ma così crudele.
Immaginiamo un'altra violenza, una voglia malsana di carne e di piacere, una voglia di possesso tutta maschile, che porterà la poverina alla morte.
Ecco, Bernini ci ha regalato l’ultimo anelito di vita di Dafne, mentre diventa alloro, con le foglie che le spuntano già sulle dita, mentre prova disperatamente a fuggire dal suo carnefice che l’ha già presa per il ventre.
Bernini ha reso quell’attimo drammatico: dopo qualche istante Dafne si bloccherà nella staticità più assoluta.
E l’ha fatto usando un motivo ad arco, con linee morbide e fluttuanti nell’aria, con uno sbilanciamento in avanti che rende palpabile la corsa di lei per sfuggire alle voglie di lui.
Un genio.
Ma non solo amore violento, che in realtà è una contraddizione: l’amore non è mai violento e se lo è non è amore.
Anche l’amore che regala il piacere.
E due sono le figure femminili in cui, seppur in un contesto altamente sacro, Bernini, con il suo irripetibile modo di trattare il marmo, ci fa vedere e toccare quel particolare attimo, fuggente anch’esso, dell’amore, in cui tutto il corpo è pervaso dal piacere e da sensazioni irripetibili. 
GIAN LORENZO BERNINI
ESTASI DI SANTA TERESA
ROMA - S. MARIA DELLA VITTORIA
L’Estasi di santa Teresa, nella cappella Cornaro  della chiesa di santa Maria della Vittoria a Roma, realizzata intorno al 1650, è un monumento scenografico e illusionistico.
Un capolavoro.
Teresa era famosa per le sue estasi durante le quali raggiungeva l’unione mistica con Dio.
Bernini, la coglie, sensuale ed erotica e insieme mistica e spirituale, proprio nell’attimo del rapimento dei sensi, con le vesti scompigliate, abbandonata, la bocca semi aperta, la testa inclinata all’indietro.
Al tempo, questa sua visione suscitò non poche polemiche. Ovvio.
Ma la sua genialità fu di sospendere la figura su un masso a forma di nuvola la cui base più scura è praticamente invisibile, quindi sembra che Teresa sia sospesa in aria.
La finestrella da cui entra la luce che illumina la scultura, accentuata dall’invenzione dei raggi dorati a far da quinta scenografica.
Un’invenzione che crea meraviglia e stupore, che fonde architettura, scultura, luce e pittura. 
Anche nell’Estasi della beata Ludovica Albertoni, del 1674, nella chiesa romana di san Francesco a Ripa, la donna è colta nel momento clou delle sue visioni mistiche. 
GIAN LORENZO BERNINI
ESTATI DELLA BEATA LUDOVICA ALBERTONI
ROMA, SAN FRANCESCO A RIPA
Adagiata su un letto, con la testa posata su un morbido cuscino, l'abito stropicciato quasi si fosse girata troppe volte senza trovare pace, la schiena inarcata, una mano sul seno e l'altra sul ventre, la testa inclinata all’indietro, gli occhi chiusi, le labbra socchiuse come se volesse parlare ma la voce fosse rimasta strozzata in gola.
Bernini quando la scolpì era già settantenne, si racconta che fosse uomo profondamente devoto. Eppure con le sue opere ha acceso la nostra fantasia, ci ha fatto immaginare, andare oltre il reale, superando così le intenzioni di quel realismo tanto caro a Caravaggio.
E nulla vieta di pensare che magari, anche solo per un attimo, nei volti delle due mistiche donne, abbia frugato nella sua memoria per ritrarre quell’attimo fuggente, fonte di gioia, felicità e piacere.

sabato 22 novembre 2014

Davvero nell'antichità dipingevano gli UFO?

VITTORE CARPACCIO
I DIECIMILA MARTIRI DEL MONTE ARARAT
Quello che mi innervosisce quando chi non è esperto di storia dell’arte ma vuole invece far finta di saperne moltissimo, è che non manca occasione di dire o scrivere una montagna di stupidaggini.
Ora poi, con l’avvento di blog e di siti in cui scrivere senza nessuna censura di tipo scientifico, queste persone aumentano in maniera esponenziale.
L’esempio che voglio portare sono le “discussioni” su alcuni quadri antichi e sulla presunta ipotesi che vi siano stati dipinti improbabili astronavi o UFO, sì, proprio loro, gli oggetti volanti non identificati.
Il primo esempio è un meraviglioso quadro di Vittore Carpaccio, dipinto nel 1512: I diecimila martiri del monte Ararat.
Trecento figure, fra grandi e piccole, in una tavola di straordinaria bellezza dall’iconografia complessa e desueta.
Ma di questo tema scriverò un’altra volta.
Quel che importa è che moltissimi, troppi direi, hanno disquisito non sul significato politico e  diplomatico del dipinto che sottendeva ai rapporti fra veneziani e turchi, come è invece la giusta lettura, bensì erroneamente su quel disco che appare in alto al centro della tela.
Secondo sedicenti ufologi, Carpaccio aveva visto un’astronave arrivata da altri mondi e la dipinse, in maniera anche simbolica perché la posizionò sopra il monte Ararat, luogo dove si posò l’Arca di Noè.
E giù pagine e pagine di inutili e farneticanti discussioni.
Il buon Carpaccio non vide mai e mai si sognò di dipingere un’astronave dalla forma visibile nei fumetti. Semplicemente dipinse - riprendendolo dalle Visioni dell’Aldilà che Bosh realizzò tra il 1500 e il 1503 visibili da lui in quanto a Venezia nella collezione del cardinal Domenico Grimani - il motivo a cerchi concentrici dell’Empireo, abitato dagli angeli, che si vedono anche svolazzare lì intorno.
PAOLO UCCELLO  - TEBAIDE - 1460
Nella Tebaide che Paolo Uccello dipinse nel 1460, secondo molte tesi ufologiche, quell’oggetto rosso visibile nella grotta al centro, a destra del crocefisso, sarebbe un disco volante, per di più rosso per descriverne l’incandescenza e realizzato con scie semicircolari come per indicare una virata, lo stesso modo in cui viene rappresentata oggi nei fumetti. 

PAOLO UCCELLO - TEBAIDE - PARTICOLARE
Forse a Paolo Uccello i fumetti non piacevano, perché quello strano oggetto altro non è che il cappello da cardinale, rosso ovviamente, che è uno degli attributi di san Gerolamo, che dopo la carriera ecclesiastica divenne eremita, e che si vede inginocchiato a pregare davanti a Gesù in croce accompagnato dal leone, un altro dei suoi attributi iconografici.
Ma non basta.
Anche Boniventura Salimbeni viene chiamato in causa dagli ufologi per via della sua Adorazione dell’Eucarestia che realizzò alla fine del 1500 per la chiesa di san Pietro a Montalcino, dove per molti dipinse addirittura lo Sputnik.
Quindi, più che un pittore, Salimbeni era un veggente.
Cerchiamo di capire.
Salimbeni dipinse Gesù, lo Spirito santo in forma di colomba e Dio Padre, ovvero la Trinità, insieme al Globo del Creato o Sfera Celeste, che rappresenta non la terra ma l’intero universo.

BONAVENTURA SALIMBENI
ADORAZIONE DELL'EUCARESTIA
L’interpretazione data da sedicenti scienziati descrive invece uno stranissimo oggetto di forma circolare, lucido, di colore metallico, a cui sono attaccate due lunghe antenne (gli scettri tenuti in mano da Gesù e Dio Padre, simboli del potere divino sul creato, n.d.a.) e quindi questo ‘coso’, dicono gli ufologi, assomiglia incredibilmente ai primi satelliti artificiali della storia umana: il Vanguard II o lo Sputnik.
Avessero studiato o almeno letto qualche testo sacro non avrebbero scritto tale sciocchezza.
Non vado oltre.

Il problema è che questi signori non si preoccupano nel modo più assoluto di documentarsi sul possibile significato simbolico e quindi tutto ciò che appare bizzarro diventa immediatamente un oggetto volante non identificato visto dal vero.
Secoli fa, i committenti, che spesse volte erano religiosi, controllavano con maniacale puntiglio l’iconografia e mai avrebbero permesso di dipingere qualcosa di strano o di non conforme ai canoni e questo lo si può capire studiando lettere, documenti, inventari e note spese.
Ma è un lavoro lungo e a volte noioso, e comunque bisogna passare giornate, mesi e anni in biblioteca. 
Per concludere: chi vuole andare a  caccia di UFO, vada pure, ma lasci stare la pittura.
Lì i misteri sono di ben altra portata, ma mai visibili alla prima occhiata.