giovedì 9 ottobre 2014

Il mondo medievale illustrato

MAPPAMONDO DI FRA MAURO - 1450
Mappamondi, planisferi e carte geografiche evocano fascino e mistero e riportano alla mente leggende antiche, città sconosciute, mondi lontani, viaggi e scoperte, navigatori ed esploratori.
Nei tempi moderni tutto sembra semplice, le notizie su come oceani e continenti si spartiscano lo spazio del mondo si imparano fin dai primi banchi di scuola, ma un tempo non era così.
Le informazioni erano scarse, molte terre ancora inesplorate.
Eppure già Tolomeo, astronomo e geografo alessandrino vissuto nel II secolo dopo Cristo, descrisse le parti conosciute della terra con un sistema scientifico, utilizzando longitudine e latitudine per l’identificazione dei luoghi, tanto che la sua opera rimase alla base della geografia fino alla riforma copernicana.
Proprio Tolomeo è una delle fonti a cui fece riferimento Mauro, monaco camaldolese che intorno al 1450 compose uno straordinario planisfero, dipingendo su pergamena, poi incollata su legno, con pigmenti di vario genere, un cerchio arricchito da continenti, città, montagne, mari e fiumi e da tremila iscrizioni in lingua veneta.
LEONARDO BELLINI - PARADISO TERRESTRE
Il tutto inscritto in un quadrato di quasi due metri e mezzo per lato dove in un angolo Leonardo Bellini, nipote di Jacopo, dipinse il Paradiso Terrestre, mentre negli altri tre sono rappresentate note e diagrammi di cosmologia secondo le concezioni medioevali tolemaiche.
Strano destino quello che ruota intorno a questa splendida opera conservata a Venezia nella Biblioteca Marciana dal 1811, dopo che il monastero di San Michele dove viveva Fra Mauro fu dismesso per ordine di Napoleone per creare nell’isola il cimitero cittadino.
E’ una delle opere geografiche più famose al mondo, riprodotto in qualunque testo si occupi di cartografia, eppure solo Placido Zurla nel 1806 se ne occupò scrivendo un volume.
Ma perché è così importante?
EUROPA
Perché rappresenta la sintesi particolarmente ampia, articolata e complessa del sapere geografico del tempo.
Le fonti raccontano di anni di lavoro e per completare l’opera il monaco raccolse una quantità infinita di notizie, partendo da autori classici come Tolomeo e Plinio, per giungere ad autori a lui contemporanei o quasi come Marco Polo o Nicolò de’ Conti, viaggiatore veneziano che andò in Cina alla fine del ’300, oltre a fonti orali che Mauro definiva «persone degne di fede».
Per certe parti del mondo come l’Oceano Atlantico, le informazioni gli giunsero dai portoghesi, che nel 1415 iniziarono le prime sistematiche esplorazioni.
E ancora le carte che gli passarono i religiosi e missionari etiopici che avevano accesso a documenti rari.
INDIA
Notizie dunque di diversa provenienza, che consentirono a Mauro di dialogare virtualmente con gli antichi attraverso le iscrizioni, grazie alla sua mente aperta e libera da schemi pre-costituiti dettati dalla cosmologia scolastica di impostazione cristiana.
Un’attitudine da vero umanista, che mette le fonti su un piano paritetico.
Qualche curiosità: intanto la carta è capovolta rispetto al nostro vedere comune, il nord cioè in basso e il sud in alto.
Il motivo è semplice: dall’alto viene la luce, che nella simbologia cristiana è intesa come conoscenza e ispirazione divina.
E ancora la parte che descrive Venezia è consumata, quasi bucata, a causa di tutti coloro che puntando il dito hanno detto, quasi come nelle piante della stazione o della metropolitana, «noi siamo qui».
Interessante poi il Giappone, per la prima volta descritto in una carta occidentale o le Seychelles e le Maldive, perfettamente allineate coi loro isolotti e arcipelaghi.
Da vedere le descrizioni accuratissime delle regioni scandinave o del corso del Nilo, assolutamente originale e perfettamente rispondente all’idrografia africana.
Un capolavoro da gustare nei minimi particolari, un’immagine del mondo dall’impianto medioevale ma dai contenuti assolutamente moderni e sorprendenti.


mercoledì 8 ottobre 2014

Klimt inaspettato

 
CASE A UNTERACH SULL'ATTERSEE - 1916
Da lui non te lo aspetti.
Da lui ti aspetti donne sensuali e scandalosamente erotiche, sempre più forti, indipendenti e libere in un mondo troppo maschile.
Ti aspetti la luce spezzettata in mille colori o i bagliori d’oro e d’argento.
Ma la Natura, no, quella non te la aspetti proprio.
Un altro Klimt, quasi inaspettato, che dipinge paesaggi rigorosamente quadrati, come volesse dire che non vanno in nessuna direzione particolare e che sono chiusi in una forma perfetta, dove nessun lato prevarica l’altro.
Oppure, con un aura più pessimista, la sua visione quadrata della natura può portare a pensare che in quel non andare in nessuna direzione ci fosse la consapevolezza del non vedere alcuna via d’uscita, al pari di Van Gogh, alla soluzione del significato della vita o all’insopportabile pesantezza dell’essere.
CAMPO DI PAPAVERI - 1907
Paesaggi con una vegetazione lussureggiante che ispirano a prima vista pace e serenità, con nulla e nessuno che disturba quel momento interiore, nessun gesto, nessun movimento visibile e più che altro con nessuna figura umana.
Quella sì, rovinerebbe l’attimo perfetto.
La natura che si erge a dea, forse intesa come dea madre creatrice dell’intero universo, all’apparenza lontana anni luce dai suoi dipinti più famosi diventati icona dell’Art Nouveau.
Il bisogno di un sogno, forte più della realtà che ci stritola come un boa, come solo un pensiero onirico può essere.
Ed eccolo Klimt, negli ultimi anni della sua vita: pare di vederlo, quando era in vacanza sull’Attersee, che solitario usciva di casa, faceva schizzi en plein air, come gli impressionisti, e poi, quando tornava, completava quel che aveva disegnato in studio, magari aiutandosi con le fotografie, come tanti suoi colleghi dell’epoca.
ORTO CON POLLI - 1916
Ma era in un altro mondo rispetto al passato, direi in un’altra dimensione spazio/temporale: nei suoi dipinti pieni zeppi di simboli il paesaggio non aveva posto, non svolgeva nessun ruolo, neanche di contorno, perché gli sfondi di quei dipinti erano mosaici lavorati con colori, oro e argento che diventavano soggetto e non erano più solo mero ornamento.
Ora invece, una nuova linfa interiore, un bisogno di calma lontano dagli affanni tutti umani, fa sì che laghi, monti e paesi diventino i protagonisti.
Un bisogno di tranquillità che solo la Natura può regalare, come fa una mamma, senza volere nulla in cambio.
Una tranquillità tangibile nell’assenza di tempo, nell’assenza di spazio, nella non energia che emanano, nella fissità dell’immagine che pare un particolare ripreso con un tele-obbiettivo: una visione troppo lontana per essere vissuta realmente.
IL MELO II - 1916
Paesaggi raffinati ma, ça va sans dire, simbolici.
Non poteva essere altrimenti.
Gli alberi solitari, pacifici e sottili, metafora della solitudine cosmica e aristocratica dell’uomo, eppure così diversi dagli olivi o dai cipressi di Van Gogh, contorti e disperati, immersi in una natura impazzita di colori e di segni.
Un'altra visione della vita, anzi, forse della solitudine.
 

martedì 7 ottobre 2014

Quel giorno a Lepanto



ANDREA VICENTINO - BATTAGLIA DI LEPANTO
«La mayor jornada que vieron los siglos», la più grande giornata che videro i secoli: così Cervantes definì sinteticamente la battaglia di Lepanto e tramanderà quell’epica impresa nel suo Don Chisciotte.         
Il 7 ottobre 1571 trecento navi della Lega Santa - la coalizione costituita il 20 maggio 1571, sotto il dogado di Alvise Mocenigo, per volere del Papa Pio V fra la Spagna, Venezia e gli Stati Pontifici - affrontarono vittoriosamente le forze navali turche al largo di Lepanto.
Morirono circa 30 mila uomini, di cui 5 mila veneziani.
Da quella battaglia dipese il destino dell’Occidente: il Mediterraneo fu liberato dalla presenza dell’Islam e l’Europa evitò di cadere sotto il dominio degli Ottomani.
Con la Lega, Venezia cercherà di proteggere il suo impero coloniale, fonte massima delle sue ricchezze, cosciente di adempiere anche ad una missione di difesa della cristianità contro un nemico implacabile e feroce.
La miccia che fece scoppiare questo nuovo capitolo della storia della Serenissima fu la dichiarazione di guerra che la Turchia fece a Venezia agli inizi del 1570 per la contesa su Cipro, dal 1489 possesso di Venezia.
Il prologo di Lepanto fu la caduta di Famagosta nell’agosto 1571, che finì col supplizio inferto dai turchi al governatore di Cipro Marcantonio Bragadin, che finì scorticato vivo.
Il 5 ottobre un brigantino proveniente da Candia portò la notizia che l’isola era caduta in mano turca e la fine che avevano fatto Bragadin e i suoi uomini.
La notizia corse da una nave all’altra, suscitando in tutti i veneziani una furia selvaggia.
I Turchi avevano dimostrato di essere nemici di Dio: la loro crudele politica aveva risvegliato anche negli animi più pacifici la voglia di distruggerli.
Da Messina più di 200 galee si mossero verso sud; ogni cristiano, libero o galeotto, ricevette un rosario.
Dall’Arsenale i veneziani portarono un’arma inconsueta: sei galeazze che montavano ciascuna 40 o più cannoni pesanti. Questa nave era sgraziata, poco manovrabile, ma era un mostro dotato di una enorme potenza di fuoco.
Il 7 ottobre 1571 era domenica e quel giorno la messa per la flotta fu celebrata con particolare solennità. Poi, da galea a galea, corse un mormorio: gli Infedeli erano in vista!
La flotta cristiana aveva una formazione a croce, tale da favorire la superiorità di fuoco contro la lunga formazione a mezzaluna, simbolica anch’essa, dei turchi.
Il fianco sinistro era al comando di Agostino Barbarigo, quello opposto era occupato dalle navi con a capo il genovese Gianandrea Doria.
Davanti all’ala veneziana erano appostate le due galeazze comandate da Antonio ed Ambrogio Bragadin, cupamente in attesa di vendetta. Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II Re di Spagna, a bordo dell’ammiraglia Real, comandava le 64 galee al centro.

JACOPO TINTORETTO
SEBASTIANO VENIER - PARTICOLARE
A fianco c’era il comandante in capo veneziano, Sebastiano Venier, sull’ammiraglia pontificia l’aristocratico romano Marcantonio Colonna.
La flotta ottomana contava 274 navi da guerra: al centro stava il grande ammiraglio Alì Pascià, a bordo della Sultana; la sinistra era affidata a Uluds Alì, Occhi Alì; la destra sotto Mohammed Saulak, Maometto Scirocco.
Il primo sparo partì da Don Giovanni che puntò dritto verso Alì, quasi fosse una sfida personale.
La Real e la Sultana avanzavano implacabilmente l’una verso l’altra, e lo sperone della Sultana penetrò nella Real: i turchi si lanciarono sulla nave ma furono trattenuti da un ostacolo che non conoscevano: le reti anti-arrembaggio.
La battaglia si combatté sulla coperta della nave di Alì: 800 uomini si contrastarono e dopo aspri duelli, Alì fu colpito alla fronte da una pallottola di archibugio.
ALI' PASCIA'
Al posto del vessillo verde dell’Islam fu issata la bandiera pontificia e nella stiva della Sultana fu scoperto il tesoro di Alì: 150.000 zecchini d’oro!
Altre navi turche cercarono di oltrepassare la flotta cristiana alle due estremità per prenderla alle spalle.
Il Barbarigo resistette e, sebbene cadesse mortalmente ferito, la manovra turca venne respinta.
Il Doria si allargò troppo per non essere circondato, dando modo ai turchi di penetrare nelle linee cristiane, anche qui i turchi furono costretti a ritirarsi, ma il genovese non fece per nulla una bella figura.
Alle 4 del pomeriggio la battaglia era terminata: la vittoria cristiana fu grande e completa, anche se non fu sfruttata appieno e non recò vantaggi concreti ai membri della Lega per i dissensi tra Venezia e Spagna.
La Serenissima stipulò nel 1573 una pace separata coi turchi, ai quali rimase il possesso di Cipro.

Tuttavia Lepanto segnò un momento decisivo di arresto per l’espansione musulmana e l’inizio della ripresa cristiana.
Per 70 anni neppure una volta i turchi osarono attaccare la Repubblica e, scomparsa la paura, Venezia non sentì più il bisogno di alleati.