sabato 4 ottobre 2014

Archimede Seguso, il vetro nel sangue



Un patrimonio ritrovato, riemerso dalla polvere dei magazzini e dalle carte degli avvocati: sono le migliaia di vetri che Archimede Seguso ha creato durante la sua lunghissima vita di straordinario maestro vetraio.
Il più grande del secolo, il maestro dei maestri, mai imitato perché impossibile per chiunque dar vita a sabbia e fuoco come solo lui sapeva fare.
Ed eccoli i vetri, lucenti o patinati, nel salone al primo piano della storica fabbrica di fondamenta Serenella a Murano, in bella mostra sui ripiani, orgogliosamente sistemati dal figlio Gino, che dopo una lunga battaglia legale con il fratello, è diventato l’unico proprietario di un patrimonio, che oltre ad un valore economico sicuramente con parecchi zeri, testimonia l’evoluzione delle mode, del gusto e dell’arte di quasi un secolo.
«E’ un doveroso omaggio che rendo a mio padre - dice Gino - e prima di decidere quale sarà la sede più adatta del museo «Archimede Seguso», voglio poterli mostrare agli amici e ai suoi estimatori».
Già, il museo.
Dovrebbe, a rigor di logica, rimanere a Venezia, ma la città non ha  ancora risposto all’appello, anche se lontano dalla laguna ai vetri di Archimede mancherebbe la loro storia e forse una parte di fascino svanirebbe nel nulla.
Forse la città sull’acqua ha altre cose a cui pensare: le grandi navi, il turismo di massa, i matrimoni hollywoodiani e quindi un patrimonio fondamentale per la sua storia come quello di Archimede non gli interessa. Misteri della politica.
Eppure Archimede era un uomo indimenticabile, che quando morì a novant’anni, il sei settembre del 1999, lasciò il mondo terreno dicendo: «Vado in cielo, così potrò fare i lampadari per illuminare il Paradiso».
Lui il vetro l’aveva nel sangue, l’intera famiglia da generazioni lavorava a Murano e Archimede iniziò giovanissimo e forgia la sua straordinaria manualità rifacendo vetri settecenteschi.
Abilissimo nel lavoro a lume e in fornace, poco più che ventenne diventa un espertissimo maestro, distinguendosi anche con la nuovissima lavorazione del vetro pesante.
Rompe infatti con la tradizione che vuole il vetro leggerissimo e soffiato: inventa vasi, sculture e animali in vetro massiccio, scolpiti con una paletta incandescente.
E’ il 1934 quando Archimede ritrae in vetro massiccio Primo Carnera diventato campione del mondo dei pesi massimi, coi suoi guantoni immensi simbolo di forza e le spalle possenti.
Sono del 1937 i primi vasi a conchiglia iridescenti, gli orsi in vetro pulegoso, realizzati con una tecnica nuova: nel crogiolo viene mescolata una patata che emana gas che fa bollire il vetro e nascono le bollicine, in veneziano puleghe, che creano effetti ottici incredibili.
Passano pochi anni, siamo ormai nel pieno dell’art déco, ed ecco i servizi da toilette che sembrano fatti apposta per l’epoca dei “telefoni bianchi”, i servizi da fumo o i completi per il rosolio.
Il 10 ottobre del 1948 Archimede decide che è arrivato il momento giusto per mettersi in proprio e costruisce la «sua» fornace: un capannone alto, con grandi finestre e un’apertura nel tetto per far circolare l’aria sì che sia sempre fresco anche in estate, con grandi alberi nel giardino a fianco, tra cui spicca un gigantesco nespolo.
Amava quella massa informe e rovente fatta di sabbia: «Per me il vetro è come una caramella, più si succhia e più si sente il dolce».
E dolci sono le sculture di donne dalle forme abbandonate degli anni ’50, morbide e formose, così diverse da quelle affusolate degli anni ’70.
Nelle sue opere c’è l’intera gamma cromatica, dai raffinatissimi vasi ametista che paiono merletti ai vasi bianchi e neri con decori a zig-zag, dai vetri «a cipolla» lilla realizzati con più di novanta sovrapposizioni di vetri opalescenti ai vasi rossi o blu ispirati all’incendio della Fenice del ’96.
E la sua storia, immortale e leggendaria come per tutti i miti, continua.

                    

venerdì 3 ottobre 2014

Il Teatro dell'Opera di Roma simbolo dello sfacelo italiano

La notizia è di quelle terribili: il Cda del teatro dell'Opera di Roma ha fatto fuori orchestra e coro: 182 persone licenziate.
Il maestro Riccardo Muti lo aveva forse intuito e se n'è andato sbattendo la porta.
Dice il soprintendente Carlo Fuortes che è una decisione presa per "far rinascere il teatro". 
Poi assicura che dal 1° gennaio si potrà ricominciare, in modo diverso, con un altro contratto, magari con gli stessi musicisti e coristi che dovranno giocoforza diventare indipendenti, ma intanto si sono risparmiati 3,4 milioni di euro.
E questo in una nazione, l'Italia, che è sempre stata la prima in campo musicale, che ha un passato glorioso, che è simbolo stesso dell'opera lirica.
La stessa nazione che paga il primo violino - che ha studiato una vita, che passa intere giornate ad esercitarsi, che deve avere una sensibilità particolare e un gran talento - 2.500 euro al mese e lascia poi stipendi o pensioni d'oro a chi  non ha nemmeno la più pallida idea di cosa voglia dire lavorare davvero, ovvero fare fatica per portare a casa pochi soldi che magari neanche bastano per una vita decorosa.
Personalmente non ci sto che si lascino andare in rovina la cultura, l'arte, la musica, i teatri, i siti archeologici, la scuola, le università, la ricerca e lotterò con tutte le mie forze per oppormi a questa sciagurata politica  
La fotografia che ho scelto è del teatro di Roma vuoto.
Dio non voglia che sia la fotografia del futuro di tutti gli altri teatri italiani.
O, ancora peggio, della cultura tutta.
Perché a quel punto, sarebbe la fine, la morte cerebrale dell'Italia, e non solo.
 

giovedì 2 ottobre 2014

In mostra a Fabriano la bellezza del Medio Evo


GIOTTO - SAN FRANCESCO
Un luogo incantevole che riporta a tempi lontani e suggestivi.
Gli archi del cortile di quello che fu un convento risucchiano le emozioni e le restituiscono ancora più forti, ora che si possono guardare da vicino cento opere di maestri, da Giotto a Gentile da Fabriano, tra cui pale d’altare, sculture lignee dipinte, affreschi, oreficerie, miniature e manoscritti.
Non c’è molto tempo ancora: il 14 novembre infatti chiuderà la mostra “Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura fra Duecento e Trecento”, alla Biblioteca Civica Bruno Malajoli di Fabriano e in altre tre chiese della zona. 
ALLEGRETTO NUZI
TRITTICO - PARTICOLARE
Si percepisce, semplicemente stando lì, in quel cortile e poi salendo le scale, la fede di allora, di quando, attraverso gli Appennini, giungevano gli echi degli affreschi di Giotto ad Assisi che cambiarono il volto a un’epoca. 
Nomi celeberrimi e nomi di artisti sconosciuti, alcuni addirittura senza neanche un nome conosciuti solo da pochi studiosi e appassionati, che ora finalmente si mettono in mostra per farsi conoscere dal grande pubblico.
Un percorso che mostra come sia ormai alle spalle l’arte bizantina, quasi che Giotto avesse tradotto l’arte dal greco al latino, anzi a quella lingua ‘volgare’ di Dante che corrisponde perfettamente ai personaggi così umani che dipinse.
E Ancora Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi e Gentile da Fabriano, con il suo stile così particolare, poetico direi, tanto da diventare il massimo esponente del gotico internazionale, ma che doveva essere un uomo inquieto tanto da non riuscire a fermarsi in nessun posto e viaggiare continuamente seguendo i lavori che gli proponevano.
Anche Allegretto Nuzi, nato e vissuto a Fabriano, finalmente ha i suoi giorni di gloria, mostrando i suoi santi così eleganti, così eterei, che appaiono leggeri e flebili come se la loro sostanza fosse la raffinatezza e null’altro.
MAESTRO DI CAMPODONICO
ANNUNCIAZIONE
Una vera chicca è l ’Annunciazione del Maestro di Campodonico, un affresco staccato restaurato per l’occasione in maniera impeccabile, così distante dai tanti, troppi restauri che invece di curare distruggono, ridipingendo in maniera selvaggia, per poter esporre in tante, troppe, mostre inutili opere a prima vista perfette, ma a cui è stata tolta interamente l’anima.
Sì, proprio quell’anima che dall’artista scivola silenziosa dentro le sue opere, che fa emozionare e venire la pelle d’oca, che ci ricorda inesorabilmente che il tempo rovina e distrugge anche gli oggetti preziosi.
MAESTRO DEI MAGI
RE MAGIO
Non solo pittura però.
Anche molte sculture lignee policrome, con inserimenti di foglia d’oro per renderle ancora più formidabili nella loro tridimensionalità nata dalla luce e dai riflessi.
Sembrano persone che quasi ci parlano, ci invitano a farsi ammirare, impeccabili nelle loro proporzioni, dai volti sereni che paiono ritratti, dalle pose naturali e tenerissime.
Una mostra che vale - il cui comitato scientifico è composto  da storici dell’arte che hanno dedicato la loro vita a studiare silenziosamente e senza clamori mediatici l’arte e non solo quella marchigiana - perché ci riporta alle nostre radici, in un aura di leggiadria, splendore, intimismo, silenzio e pace.
E di pace ne abbiamo bisogno tutti.