martedì 2 settembre 2014

Vermeer: differenze, similitudini e mistero

Jan Vermeer - Ragazza con l'orecchino di perla
1665/1666 - L'Aia, Mauritshuis
 
Quando ero all’università, il mio professore di storia dell’arte diceva sempre di non fermarsi mai alla prima immagine, perché nell’arte come nella vita e nell’amore, dietro la facciata c’è sempre qualcos’altro ed è quel «qualcos’altro» che vale la pena di scoprire.
Ed è quel che ho pensato, d’istinto, rivedendo dopo vari anni il manifesto del film La ragazza con l’orecchino di perla.
La somiglianza conturbante tra Scarlet Johansson, la giovane attrice protagonista del film e la modella seicentesca della Fanciulla col turbante di Johannes Vermeer, rivelò la corretta filologia del film.
Forse il regista era anche animato da quel parossismo maniacale che era la caratteristica di tutti i pittori fiamminghi.
Il risultato era comunque stupefacente: guardando la ragazza con l’orecchino di perla tutti pensarono a Vermeer.
Ma... questa è la facciata, ineccepibile nell’assoluta somiglianza dei vestiti, dei colori, della posa, dei tratti fisionomici.
E’ un’immagine che nasconde però qualcosa di molto intrigante.
Uguali che più uguali non si può?
No, per niente: tra loro un universo di differenze iconografiche, storiche e culturali, ma soprattutto intellettuali.
Guardo l’espressione del viso: è diversa, non esiste una copia perfetta, è impossibile riprodurre l’irripetibile espressione umana.
Scarlet Johansson
Griet, la protagonista del film, è un’adolescente che sta scoprendo i suoi primi impulsi sessuali e sta imparando a usare il proprio potere seduttivo.
Della modella di Vermeer invece non sappiamo nulla, possiamo solo immaginare, fantasticarci sopra. Percepisco che la pittura ha qualcosa in più della realtà e non qualcosa in meno: ha la storia, la cultura e l’arte di chi ha mescolato i colori e preso il pennello in mano.
Eccolo finalmente scovato il plus-valore dell’arte: non c’è solo un soggetto piacevole e una buona tecnica, in un dipinto c’è soprattutto il pittore, la sua genialità, la sua anima, il suo cuore. In un quadro ci sono montagne di sentimenti ed emozioni che nel soggetto rappresentato cambiano. Capire fino in fondo un quadro è guardarlo con gli occhi del cuore, perché tela e colori ci mostrano la rappresentazione della realtà, non la realtà: un’immagine non è il vero.
Il confronto, seppur impossibile, sarebbe stato più veritiero tra la Johansson e la vera modella. Allora sì che avrebbero combattuto ad armi pari.
Leonardo da Vinci - Gioconda
1503 - Parigi, Museo del Louvre
E’ come la Gioconda di Leonardo, la vera icona del mistero.
Com’era veramente Monna Lisa? Cosa sappiamo di quanto nel suo ritratto ci sia di Leonardo e quanto di lei stessa?
Non lo sapremo mai, così come non sapremo mai com’era veramente la misteriosa ragazza col turbante.
Continuo a demolire la facciata, per scovare ancora «qualcos’altro» e trovo la dicotomia movimento/staticità: l’immagine cinematografica vive in un attimo e viene consumata all’istante, il ritratto è invece destinato a vivere in eterno.
Montagne di sentimenti ed emozioni: la ragazza col turbante è un capolavoro di poesia evocativa e ha un forte valore perfino l’assenza di qualcuno. Questo inimitabile «giallo e blu» di Vermeer, ha un’atmosfera rarefatta, un silenzio e una purezza quasi metafisica, che alla tecnica raffinatissima unisce una pacata ma insistita ricerca dei segreti dell’animo femminile.
E’ un dipinto nel quale vertici di semplicità e verità ottica evocano un senso di magica sospensione dal tempo. Guardare da vicino e con gli occhi del cuore questo ritratto provoca incredibili suggestioni, innalzando la scena al di sopra del quotidiano.
E allora concentro tutta la mia attenzione sullo sguardo gettato dalla ragazza alla sua spalla sinistra, mentre i suoi occhi incontrano i miei. Le pupille luccicanti, le labbra inumidite e il modellato del volto e della veste riescono a convincermi della loro perfetta ed assoluta naturalezza.
Eppure l’identità della fanciulla era e rimane misteriosa, nonostante il suo ritratto sia diventato il simbolo stesso dell’arte di Vermeer.
E’ un’opera in cui questo straordinario artista ripropone il miracolo di una luce che penetra nella materia pittorica e sembra scaldarla dall’interno, farla vivere in modo autonomo, condensandosi in particolari come la perla che brilla sull’orecchio.
Riguardo il manifesto: certo, è vero, si assomigliano proprio, ma ormai la facciata è completamente sgretolata e la differenza è più che trovata: un film non ha segreti, è visibile, e procede nella sua breve vita che dura meno di due ore.
Un quadro è un intricato mistero che racchiude, e racchiuderà per sempre, come in uno scrigno, tutte le magiche e infinite sfaccettature dell’animo umano.

Pasquale Rotondi, un eroe quasi dimenticato

Mantenere sempre viva l’attenzione sulla salvaguardia di tutti i beni culturali, che si esprime attraverso la tutela prima e la valorizzazione poi. Questo concetto dovrebbero ficcarselo bene in testa i nostri sempre meno competenti ministri, che però se ne guardano bene e sembrano l’opposto di Winston Churchill, che alla richiesta di tagliare i fondi per l’arte per sostenere lo sforzo bellico, rispose «Ma allora per cosa combattiamo?»
Anzi, parrebbero quasi essere d’accordo con la citazione dall’opera Schlageter di Hanns Johst, del 1933, erroneamente attribuita a  Joseph Goebbels: «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola». 
Già, la salvaguardia del nostro patrimonio storico-artistico, un unicum nel contesto mondiale che dovrebbe essere la risorsa principale di questa Italia così maltrattata.
Tant’è.
Patrimonio a rischio in periodi di guerra e di attentati terroristici, come avvenne nel 1993 quando vennero fatte scoppiare alcune bombe all’Accademia dei Georgofili a Firenze.   
Un problema spinoso, anche perché riguarda non solo i milioni di oggetti mobili, vale a dire dipinti, sculture, oreficeria o quant’altro possa avere un valore artistico e storico, ma anche l’immenso patrimonio architettonico.
Il problema di salvaguardare il tutto è immane, seppur i musei siano ben più attrezzati per quel che riguarda la sicurezza di quanto non lo fossero solo pochi anni fa. 
Una grande attenzione dunque, ma non di sicuro sufficiente, basti pensare a come sta decadendo Pompei, che era rimasta quasi intatta dopo un’incredibile eruzione del Vesuvio e duemila anni e ora crolla come un castello di carta o i furti, per lo più maldestri, come le tavolette quattrocentesche rubate pochi giorni or sono al Castello Sforzesco di Milano. 

PASQUALE ROTONDI
Il tema della difesa del nostro patrimonio riporta alla mente quello straordinario uomo che fu Pasquale Rotondi, Soprintendente di Urbino dal 1939, quando l’Italia era a un passo dall’entrata in guerra.
Un eroe.
La storia di Rotondi è una storia mitica, rimasta forse troppo nell’ombra per tutti questi anni.
Uomo mite e schivo, fu l’artefice della salvezza di oltre ottomila opere d’arte conservate in ogni luogo d’Italia.
Lo spettro della guerra aleggiava inquietante e si decise che tutto quel che c’era di importante doveva essere trasportato in un luogo sicuro. Rotondi decise che i luoghi perfetti erano il Castello di Sassocorvaro e il Castello dei Principi di Carpegna, due piccoli paesi sperduti del Montefeltro.
Dal giugno del ’40 iniziarono ad arrivare opere di Caravaggio, Raffaello, Piero della Francesca, Perugino, Tintoretto e Leonardo.

TRSPORTO DELLE CASSE CON I QUADRI NEL CASTELLO DI SASSOCORVARO
Da Venezia giunsero 56 casse con dipinti di Bellini, Mantenga, Tiziano e la Tempesta del Giorgione, oltre alla Pala d’Oro e al Tesoro di San Marco.
Sembrava che tutto procedesse per il meglio fino a quando arrivarono i tedeschi, che sembrava volessero trafugare il tutto, senza poi per fortuna riuscirci.
Ma lui riesce a salvare tutti i quadri anche dall’avidità di Goering e dello stesso Hitler che amavano collezionare le opere d’arte italiane trafugandole nelle zone controllate dalla Wermacht e dalle SS.
Riesce a salvarle rischiando anche la sua stessa vita e  quella della sua famiglia.
Rotondi, senza più aiuti da Roma e con solo alcuni fidi collaboratori, riuscì a portare i dipinti più importanti a casa sua, sotto il letto. E non è una leggenda: me lo disse sua figlia Giovanna, all'epoca Soprintendente della Liguria quando ero all'università di Genova.
Salvò non solo le opere, ma anche l’anima del nostro Paese.

Un fiammingo con Tintoretto


Jacopo Robusti detto Tintoretto con Marten de Vos - La creazione degli animali - Venezia, Gallerie dell'Accademia
La creazione degli animali, il peccato originale e Caino e Abele: il colpo d’occhio per chi si affaccia nella sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia nel vedere insieme i tre dipinti del Tintoretto non è da poco.
Però. La differenza stilistica tra il primo e gli altri due è assolutamente evidente, quasi che Jacopo per creare una tassonomia di questo genere, una sequela di animali per lo più marini, si fosse sdoppiato, vestendo i panni di un fiammingo schizofrenico e maniacale.
E se fosse? Per Augusto Gentili, docente di storia dell’arte a Ca’ Foscari, è plausibile, anzi assolutamente verosimile.
E ha trovato anche il nome di quella che potrebbe essere la seconda anima di Tintoretto: Marten de Vos, pittore che da Anversa soggiorna a Venezia e lavora nella bottega di Jacopo tra il 1552 e il 1558. Giusto il periodo in cui la Scuola della Trinità, scomparsa per volere napoleonico e già nel 1630 trasferita per far posto al cantiere della Salute, commissiona al pittore le tele relative alla Genesi.
Però. Tre tele di questo argomento, ora perdute e di cui si ha notizia solo per via documentaria, erano già state commissionate al de Vos sempre dalla stessa scuola.
E Gentili afferma così che il dipinto, tradizionalmente attribuito al solo Jacopo, è in realtà un’opera a due mani. Abitudine peraltro consolidata in un ambiente in cui le commesse erano così tante ed importanti che l’aiuto della bottega era non solo fondamentale ma insostituibile.
La figura di Dio, un vecchio dalla lunga barba in una posa “volante”, è sicuramente creatura del grande veneziano, mentre la parte ordinata degli animali tipicamente fiamminga è di mano del de Vos. E le due firme saltano ancor di più agli occhi confrontando il primo dipinto con gli altri due, dove l’orizzonte è chiuso e non aperto all’infinito come nella creazione degli animali.
De Vos era uno specialista e Jacopo lo vuole con sé per affrontare un tema particolare come quello degli animali e della spazialità.
E’ comunque il maestro che decide sia l’impostazione del dipinto che la sua iconografia, in questo caso un po’ inconsueta e fortemente nutrita di cultura. Jacopo infatti trae ispirazione iconografica da un testo, il Genesi, che Pietro Aretino scrisse nel 1538 e nel quale faceva riferimento all’elencazione di animali e soprattutto di pesci.
Non solo. Jacopo si rivolge all’Aretino anche per l’iconografia del peccato originale, dove è evidente il ruolo primario di Eva, logico vista la fonte.
In un brano il buon Pietro, da vero misogino qual era, afferma che la colpa può essere solo delle femmine, data la loro leggerezza e la loro facilità a farsi concupire, sì che il demonio ci mette poco a convincerle perché non ragionano a lungo…