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martedì 2 dicembre 2014

Breviario Grimani: il must dell'arte libraria


BREVIARIO GRIMANI

BREVIARIO GRIMANI
UNA PAGINA MINIATA
Sembra a volte che anche gli abbiano un’anima: i casi sono rarissimi ma se capita di imbattersi in uno di questi fortunati, allora l’emozione è davvero sublime. Il Breviario Grimani è in questa raffinata élite e lo sa benissimo, conscio com’è che il suo colto proprietario, il cardinal Domenico, aveva scritto nel suo testamento di mostrarlo solo a personaggi di riguardo e in occasioni particolari: se ambasciatori o principi volevano ammirarlo ma erano degli zotici ignoranti, avrebbero ricevuto comunque un grazioso ma inesorabile diniego.
D’altronde lui, dall’alto del suo mezzo millennio di vita, sa di essere perfetto in ogni minimo particolare, sa di avere 835 carte, ovvero 1670 pagine, 120 miniature a tutta pagina, una quantità impressionante di decori e capilettera impreziositi dall’uso sapiente dell’oro, una scrittura chiara ed elegante, una copertina in velluto cremisi con bronzi dorati e la medaglia con il profilo del suo mecenate, con una varietà dei temi e di soggetti inimmaginabile.
E sa di essere, perciò, un capolavoro assoluto.
Un capolavoro famoso nel mondo eppure quasi sconosciuto.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI FEBBRAIO
Un oggetto cult comprato dal cardinal Domenico nel 1520 per l’astronomica somma di 500 ducati d’oro, la stessa necessaria per armare una galea carica di merci e marinai pronta per salpare per l’Oriente.
Il patrizio si portò a casa un manoscritto nato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, un vero capolavoro, per poi donarlo alla Serenissima Repubblica di Venezia che lo custodì nel Tesoro di san Marco fino a quando nell’Ottocento passò alla Biblioteca Marciana.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI MAGGIO
Considerato a ragione un monumento dell’arte della miniatura fiamminga del Rinascimento, il breviario, di cui non si conosce l’esatta committenza originaria, offre una panoramica dell’iconografia e della capacità analitica dei seguaci di maestri del calibro di Van der Goes, Gerard David, Metsys e Jan Gossaert.
La parte più conosciuta del Breviario è il calendario iniziale: nelle scene a piena pagina collocate di fronte alle pagine del calendario di ciascun mese incorniciate con piccole scene di vita, esplode una sequenza di quadri sulla vita contemporanea di corte, della borghesia e del mondo contadino, come voleva la nuova stratificazione della società.

BREVIARIO GRIMANI
MESE DI AGOSTO
Furono soprattutto quelle scene (la magia della neve a gennaio, la tavola del banchetto del Signore, la scena di caccia, la luce notturna) a destare la meraviglia degli ambasciatori o dei reali in visita che poterono accedere al Tesoro di san Marco.
Sa di essere bello, di quella bellezza che Grimani considerava, da uomo di Chiesa, come l’ombra di Dio sulla terra, sa di essere la rappresentazione sublime della soluzione data dagli artisti delle Fiandre al problema della rappresentazione del visibile.
Il Breviario sa di essere stato una pietra miliare in quella straordinaria liason tra l'arte fiamminga e quella veneta che fece nascere capolavori a quattro mani, frutto di una contaminatio intellettuale senza precedenti.

Lui non è consultabile, e per ovvie ragioni di tutela vive nel suo  rifugio sicuro e solitario.

BREVIARIO GRIMANI - MESE DI MARZO

Ne esistono copie in fac-simile, anche straordinariamente perfette nonché costosissime, altre parziali e insufficienti, altre più decorose ma tutte ugualmente sterili di sensazioni.
Invece la sua anima emana bellezza, arte e cultura, e si percepisce alla prima occhiata di chi ha avuto, come me, la fortuna e il privilegio di guardarlo.

E questa percezione regala felicità.

venerdì 14 novembre 2014

Giorgione, il vero rivoluzionario

GIORGIONE
MADONNA, BAMBINO E SANTI
Era davvero l’enfant prodige della pittura cinquecentesca e, non so perché, ma lo immagino giovane e bello, come lo era l’eroe della Locomotiva di Guccini.
Forse perché morì a 33 anni, forse perché la sua vita e le sue pochissime opere sono ancora un mistero ancora tutto da scoprire, alimentato da leggende che spalmano su di lui un alone di mistero ancor più affascinante.
Di Giorgio da Castelfranco detto Giorgione, si sa che nacque intorno al 1477 e ben poco dalle Vite di Giorgio Vasari e dalla biografia che scrisse Carlo Ridolfi nel 1648, spesso, come succedeva all’epoca, piuttosto inattendibile seppur con un fondo di verità. 
in ogni caso entrambi raccontano che il giovanotto amasse le belle donne, l’amore, la vita, la musica e che frequentasse la società patrizia veneziana raffinata e per nulla bigotta.
Inizia la sua carriera nel 1504 con una pala d’altare di impostazione ancora belliniana per la sua cittadina ma subito la svolta, improvvisa e violenta, tale che lasciò una traccia potentissima nella pittura dei secoli a venire.
Chiave della sua arte è il rapporto tra pittura e natura con la resa della luce e dell’atmosfera. 
GIORGIONE - CONCERTO CAMPESTRE
Per raggiungere questo effetto, riduce l’importanza del disegno di contorno, esaltando così i passaggi cromatici di tono.
Pochissime sono le tele che dipinse sicuramente il giovane talento veneto fra cui la Venere dormiente, la Tempesta e I tre filosofi.
Altre due tele, il Concerto campestre e il Concerto, sono contese, da sempre fra la mano di Giorgione e quella di Tiziano, suo allievo.
Comunque, io propendo per attribuirle entrambe a Giorgione, perché l'impostazione non può che essere che sua. 
Nella Venere dormiente, di cui ho già scritto un articolo, il primo nudo femminile dell’arte moderna, la dea non è comunque la protagonista per il suo fondersi con il paesaggio, che segue le forme e le sembianze del corpo.
Ancora più rivoluzionario il rapporto tra Natura e figura umana nella Tempesta: nell’ampia veduta in profondità, illuminata dal bagliore di un lampo, si inseriscono due figure, un giovane con una lancia e una donna che allatta il bambino.
GIORGIONE - LA TEMPESTA
Non importa sapere che i due sono Adrasto e Ipsipila, due personaggi di un poema di Stazio.
Sono immersi in una sfera fantastica e poetica: tra la natura in tempesta, la donna e l’uomo si instaura un feeling di sensazioni evasive, indecifrabili, che sono la vera essenza di questo capolavoro.
Tecnicamente, l’indefinitezza pittorica che riassorbe i contorni del colore usato nelle sue infinite possibilità risponde all’indefinitezza del soggetto e suggerisce una nuova visione della natura.
Il dettaglio degli alberi consente di apprezzare in pieno la pazientissima e fine tessitura luministica che regala al dipinto una straordinaria e inedita suggestione.
L’ultimo capolavoro giorgionesco è I tre filosofi, su cui storici, filosofi, iconografi e semiotici si sono letteralmente spaccati il cervello.
GIORGIONE - I TRE FILOSOFI
Un enigma, di quelli che di sicuro piacevano al ragazzo di Castelfranco, forse fatto apposta per far impazzire la gente.
Forse raffigura le tre età dell’uomo, forse.
L’importante è che ancora una volta il suggestivo scorcio di paesaggio animato dalla luce dorata e le tre figure pensose e monumentali sono un tutt’uno che diventa messaggio poetico e profondo.
Giorgione muore nel 1510, lasciando dietro di sé il mistero della sua vita e delle sue opere e, davanti, una nuova, straordinaria, strada per la pittura.

domenica 5 ottobre 2014

La guerra, vinta, di Tiziano

TIZIANO - APOLLO E MARSIA
Ha ormai quasi novantanni, eppure il grande vecchio della pittura italiana riesce a dare il meglio di sé. L’ultima opera, la Pietà, non riesce neanche a finirla - ci penserà poi Palma il Giovane a farlo, dipingendo gli angeli reggicero – perché la peste se lo porta via.
Ma cosa ha lasciato Tiziano in eredità che così tanto ci emoziona?
Provate a fare un gioco, una sorta di guerra surreale con protagonisti il Disegno, il Tempo e il Colore.
Pensate di trovare davanti a voi una grande tela, con un poveretto – scoprirete poi che si chiamava Marsia, che perse una gara di flauto con Apollo e che subì una punizione simile a un sacrificio umano – contorto dal dolore mentre lo stanno scuoiando.
Fermatevi, non potete fare altro.
Un groppo in gola e un aggrovigliamento di stomaco ve lo impediscono.
Siete spettatori privilegiati di un conflitto dal sapore rivoluzionario, di una lotta fra titani decisa da quel divin pittore che scese dai monti del Cadore per cambiare il corso della storia della pittura.
Ascoltate le voci di quella pittura.
Sentirete un fragore, urla, strepiti, come nel bel mezzo di una battaglia.

Un miscuglio di colori urlanti vi appare sullo sfondo, mentre lacca rossa, biacca, nero e le tinte dell’incarnato delle figure di destra – un satiro, un bambino, un cane – si sciolgono mescolandosi indissolubilmente fra di loro, come nel velo di Apollo che sta a sinistra – azzurro polvere, viola, lacca rossa – o nel corpo martoriato di Marsia – rosso, verde, grigio, beige – che troneggia disperatamente al centro.

TIZIANO - TARQUINIO E LUCREZIA
È lì, il momento topico, la madre di tutte le battaglie. 
Il Disegno, che ha cercato disperatamente di difendersi con tutte le sue forze che lo davano da sempre come il principale e indispensabile ingrediente della pittura, ormai privo di forze, soccombe, steso dal Colore che a sua volta ingaggia un’altra terribile battaglia contro qualcosa di assolutamente ineffabile: il Tempo.
Guardate e ascoltate.
L’un contro l’altro armati ecco il duello all’ultimo sangue tra un grande vecchio, forte della sua genialità, e il secolo d’oro della pittura, che gli sta così stretto da soffocarlo.
Ed eccolo Tiziano, ormai stanco, malato e con la vista malandata, sconfiggere il Tempo e catapultarsi tre secoli in avanti.

Par quasi di vederlo, col suo pastrano antico, la sua barba lunga, il suo sguardo fiero e indagatore, aggirarsi per Montmartre, guardare quei giovani dai nomi strani che si facevano chiamare Impressionisti.

TIZIANO - PIETA'
Chiudete gli occhi.
Immaginatelo, mentre rivendica con orgoglio la paternità di quel nuovo modo di far pittura lontano dalla prassi accademica, di quelle pennellate sfatte, di quel colore steso con le dita, di quei colori mischiati.
Immaginatelo che racconta a uno dei tanti bohémien che si credono innovatori, come si inventò quella biacca mescolata all’arancio, al nero e al blu per dare una forma alla disperazione tutta umana della Maddalena nella Pietà, o quelle labbra rosse di Maria, così sfatte per le troppe lacrime che solo una madre sa versare per il proprio figlio o le macchie con cui magicamente insieme aveva formato il corpo morto di Cristo.
O ancora come riuscì, lottando a mani nude contro i margini ben delineati, a dare così forza a Tarquinio, vestito di arancio, lacche, biacca, nero e marrone mentre pugnala una terrorizzata Lucrezia, col colore candido della veste che si scioglie nella carne tremante, quasi fosse una ballerina di Degas impegnata nella tragica danza della Morte.
E ora rilassatevi, la guerra è finita, vinta da un uomo vecchio, che con il pensiero già toccava la morte, con la sola arma del suo Colore, trapassando il Tempo e il Disegno con la spada della sua imperitura gloria. 

 

venerdì 26 settembre 2014

Il mondo fantasioso di Pietr Bruegel

NOZZE CONTADINE - 1568
Paffuto, con barba e baffi rossicci, aria sorniona e sguardo assente, vestito riccamente di nero in conversazione con un frate dall’aria spiritata: così appare Pieter Bruegel il Vecchio in Nozze contadine, uno dei suoi dipinti più celebri.
Vertice assoluto della pittura fiamminga insieme a Van Eyck e Rubens, nasce intorno al 1525 in un villaggio nei dintorni di Breda nelle Fiandre, dove da più di un secolo erano costanti i rapporti con l’arte italiana.
Diventa subito allievo di Pieter Cock per poi partire con destinazione Italia, rinverdendo la consuetudine dei viaggi di studio all’estero iniziata da Dürer nel 1494.
Nel 1551 si stabilisce ad Anversa, dove fa parte della gilda dei pittori.
Qui viveva more uxorio con una servetta che avrebbe anche sposato se la fanciulla non fosse stata una bugiarda incorreggibile.
Ma a Bruxelles incontra la vedova di Cock e ne corteggia la figlia diciottenne Mayeken, la stessa che aveva tenuto in braccio quando era bambina, e nel 1563 la sposa.
PROVERBI - 1559/1560
Fu la suocera a porre come condizione al matrimonio il trasferimento a Bruxelles per interrompere il giovanile legame amoroso con la servetta. Pieter acconsentì.
Bruegel è uno spirito indagatore sia dal punto di vista iconografico sia da quello tecnico e la sua inimitabile pittura scaturisce improvvisa con la forza di un fenomeno naturale.
Tra le composizioni più famose, che dipinse negli anni 1559/60, sono i Proverbi.
GRETA LA PAZZA - 1562
L’antico tema dei detti popolari godeva a quel tempo di grande favore per l’intento moralistico di illustrare gli effetti della stoltezza umana.
Nella tavola, una sorta di veduta a volo d’uccello, riunisce nell’ambiente di un villaggio di fantasia un centinaio di immagini che interpretano ciascuna un modo di dire fiammingo sulla furberia e sulla sciocchezza degli uomini.
L’agire umano appare in tutta la sua assurdità proprio attraverso la traduzione concreta di astratte espressioni verbali.
Al 1562 risale Greta la Pazza, una megera ossuta che fa una scorreria alle porte dell’Inferno.
Un quadro pieno zeppo di significati simbolici.
CADUTA DEGLI ANGELI RIBELLI - 1562
Il singolare dipinto, insieme alla Caduta degli angeli ribelli, mostra più evidente l’ispirazione del repertorio fantastico e demoniaco di Bosch e che, per la bizzarria del tema, si è prestato alle interpretazioni più svariate.
Successivamente affronta alcuni temi biblici per poi dipingere la serie dei Mesi, immagini dove uomini e cose appaiono fusi in una visione poeticamente unitaria. I gesti dei contadini, gli attrezzi e i frutti della terra resi nei minimi particolari e inseriti nel variare delle ore e delle stagioni, diventano parte integrante della poesia della realtà.
La tradizione ottocentesca lo soprannomina “Bruegel il contadino”, il pittore che con il popolo contadino si identificava.
Niente di più falso.
MESI - 1565
Bruegel è un umanista che unisce in sé in maniera affascinante tutto ciò che l’arte del suo tempo offre di nuovo.
Innovatore dello stile e delle tematiche artistiche, elabora un linguaggio figurativo del tutto personale grazie alla ricchezza della sua tecnica pittorica, stendendo i colori a strati sottili usando pennelli di piccole dimensioni, e della sua incredibile immaginazione.
Muore nel 1569 a Bruxelles e i suoi due figli vennero avviati alla pittura dalla nonna materna: Pieter il giovane copiò per tutta la vita l’opera del padre mentre Jan si rivelò erede del talento paterno, diventando a sua volta pittore di prima grandezza. 

sabato 13 settembre 2014

Tiziano e la morte


Tiziano - Autoritratto - 1562
Berlino, Staatliche Museum
Era nella materia bruta del colore e in tutte le sue sfumature più incredibili che Tiziano aveva annegato il pensiero della morte, che negli ultimi anni della sua vita aveva incontrato tante, troppe, volte per la perdita di persone a lui carissime.
E queste perdite si erano trasmutate in un nuovo modo di dipingere, come se le sue emozioni si tramutassero in colore, prima ancora che in pensieri.
Il colore era la sua passione e la sua ossessione. Palma il Giovane, suo allievo, diceva che su ogni quadro Tiziano «gettava macchie di colore, per poi metterci le mani per plasmarlo e ottenere quei risultati spettacolosi».
Palma conosceva bene la tecnica del pittore cadorino, lavorò con lui e, alla sua morte, finì lui stesso la Pietà, che avrebbe voluto sopra la sua tomba nella basilica dei Frari, ora all’Accademia, il testamento spirituale del maestro. 
Ma in quel quadro, l’orrore per la morte diventa qualcosa di visibilissimo e agghiacciante. 
Tiziano - La Pietà, particolare - 1576
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sotto il basamento di una colonna con la testa di un leone scolpita in pietra, aveva dipinto un particolare che mette i brividi: un piccolo ex voto con lui e Orazio inginocchiati a mani giunte davanti alla Madonna.
Era forse una supplica angosciata per preservare lui e il figlio in quei giorni bui e terribili?
La peste stava sconvolgendo Venezia e il suo Cadore dall’aria pulita, cristallina e sana era troppo lontano, quasi un miraggio.

Chi sa quante volte aveva pensato di ritornare a casa, lui, che amava firmarsi “Titianus cadorinus”.
Ma quel viaggio salvifico non lo intraprese mai.
Neanche la pittura lo avrebbe salvato da quell’appuntamento ineludibile, da quel viaggio sconosciuto.
Tiziano - La Pietà - 1576
Venezia, Gallerie dell'Accademia
E nemmeno la gloria immensa che lo aveva accompagnato per tutta la sua lunghissima esistenza gli sarebbe servita a qualcosa.
Quella stessa gloria che aveva fatto inchinare un imperatore, Carlo V, per raccogliergli un pennello mentre gli stava facendo un ritratto.
E non avrebbe nemmeno risparmiato l’adorato figlio Orazio, che lavorava con lui.
No, la peste era maledetta, non guardava in faccia a nessuno.
Ma in quel maledetto agosto del 1576, i conti con la signora in nero, doveva proprio farli.
Non riuscì neanche a finirla la Pietà.

Morì il giorno 28, con il pennello in mano.
Si racconta che fu la peste a portarlo via dal mondo terreno, ma forse, fu il dolore, lancinante, a prenderlo per mano e portarlo con sé nei meandri invisibili dell’aldilà.

domenica 7 settembre 2014

Michelangelo: l'autorità del genio

MICHELANGELO - GIUDIZIO UNIVERSALE - 1536/41
CITTA' DEL VATICANO, CAPPELLA SISTINA
Con il Giudizio Universale, Michelangelo era intervenuto con l’autorità del genio nel problema più scottante del tempo, sostenendo la tesi cattolica della responsabilità contro quella protestante della predestinazione.
Iniziato nel 1536 e terminato nel 1541 nella parete di fondo della Cappella Sistina per volere di Papa Paolo III, il dies Irae che evoca, rompendo con la tradizione iconografica, è ben lontano dai Giudizi dei maestri del passato con le loro schiere di Santi ordinate intorno a Cristo con a debita distanza i dannati che discendono alla loro destinazione infernale.
Dio giudice, nudo, atletico, senza alcuno degli attributi tradizionali di Cristo, è l’immagine della suprema giustizia, che neppure la pietà e la misericordia, rappresentata dalla Madonna implorante, può temperare.
Michelangelo concepisce la composizione come una massa di figure rotanti intorno a Cristo che emerge isolato in un nimbo di luce. Santi e Martiri sono in alto, alcuni dannati invece lottano invano per sfuggire alla stretta dei diavoli, altri si pigiano sulla barca di Caronte, altri ancora si gettano sgomenti nel gorgo e sulla sponda li attende Minosse.
In alto, nelle lunette, angeli recano i simboli della Passione, quasi invocando vendetta.
Lo sgomento invade anche i beati: la giustizia divina è diversa da quella umana, solo Dio ne conosce i motivi e ne è arbitro, come nella grazia.
PARTICOLARE CON SAN BARTOLOMEO

E anche Michelangelo stesso vuole essere in quella bolgia di corpi, a metà tra i beati e i dannati.
E si ritrae, allucinato e spaventoso, nella pelle scuoiata di san Bartolomeo, che scivola verso il basso.
Un’opera meravigliosa, che rivela tutta la maestria michelangiolesca nel disegno del corpo umano colto da qualsiasi punto e angolatura, con giovani atleti dai muscoli mirabili che si snodano e si piegano nelle più svariate direzioni.
E non vi è dubbio che molte idee che avrebbero potuto esprimersi nel marmo di Carrara si affollavano nella sua mente mentre dipingeva.
Poi sopravvenne il clima della Controriforma e la preoccupazione delle gerarchie vaticane di allontanare da Roma le accuse di paganesimo.
Fu così che Daniele da Volterrra, un discepolo di Michelangelo, poco dopo la morte del maestro, nel gennaio del 1564 fu incaricato di coprire con panneggi dipinti a tempera le nudità più vistose: su dieci figure gli indumenti già esistenti furono ampliati, su altri venticinque furono dipinti di sana pianta.
E il povero Daniele ci guadagnò il soprannome di Braghettone. 

venerdì 5 settembre 2014

Sensualità femminile

Giorgione - Venere dormiente - 1510 - Dresda, Gemaldegalerie
Bella, anzi bellissima, con un braccio dietro alla testa e l’altro che si tiene il pube con un gesto delicato, come di protezione, sdraiata mollemente, quasi sfinita, su un drappo di seta bianca e su un cuscino coperto da un drappo rosso, immersa in un paesaggio che infonde serenità, con il viso dolce di adolescente cresciuta in fretta.
E’ la Venere dormiente che Giorgione dipinse nel 1510.
Forse un sogno proibito di quel genio  che  ci  lasciò talmente  poche opere, tutte straordinariamente belle, che di lui sappiamo ancora oggi molto poco, se non che morì giovanissimo, a 32 anni.
Forse era la rappresentazione dell’amore ideale, quello che forse mai aveva provato, o magari era il ritratto della sua amata che si riposava. Forse era il ricordo di quella giovane nuda, l’unico frammento rimasto degli affreschi al Fondaco dei Tedeschi a Venezia.
Congetture, ipotesi, ma le forme delicate e sinuose, i suoi piccoli e perfetti seni, l’atmosfera di sensualità che nasce da quel semplice gesto della mano rimangono indelebili nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederla alla Gemäldegalerie di Dresda o semplicemente in fotografia.
Certo è che la sua Venere è probabilmente il primo nudo femminile dell’arte italiana, se non si contano ovviamente gli affreschi e i mosaici di Pompei, che già duemila anni fa raccontavano la vita come era realmente e come la vivevano i suoi sfortunati abitanti: le passioni, gli amori, le perversioni, il sesso, le feste. E lo facevano senza curarsi di peccati o di terribili dannazioni eterne perché liberi dai precetti della Chiesa che non era ovviamente ancora arrivata. Ma dipingevano anche la natura con una semplicità e una precisione straordinaria. La stessa natura, dolce, delicata e sfumata, che ritorna in Giorgione con una forza strabiliante e che ricorda in qualche modo le forme nude della fanciulla.
Fu Tiziano a finire la Venere perché Giorgione morì proprio in quell’anno.
E determinò così il trionfo del genere del nudo femminile, prendendo a pretesto la mitologia, le allegorie o le metamorfosi.
Un bel salto rispetto al passato pudico e tremebondo.

Anonimo - Gabrielle d'Estrèes e la duchessa di Louve nel Bagno - 1590 - Parigi, Museo del Louvre
Da quel giorno in poi la nudità gettò i suoi veli al vento e si mostrò a tutti, a volte più spudoratamente a volte meno, a volte proprio per colpire la fantasia erotica, come nel dipinto Gabrielle d’Estrées e la duchessa di Louve nel bagno, al museo del Louvre di Parigi, che un artista anonimo della scuola di Fontainebleau dipinse intorno al 1590.
Si potrebbero trovare simbolismi di ogni sorta, a partire da quelli esoterici, ma quel che colpisce è il conturbante erotismo della donna che pizzica il capezzolo dell'altra, dentro il preziosismo dei particolari minuti di origine fiamminga e la preziosità dei colori, pochi per la verità: bianco, rosso e nero.
E la maniera della scuola di Fontainebleau è caratterizzata proprio dalla predilezione per le figure femminili allungate e sinuose, dall’eleganza e dalla gracilità del segno, da una fantasia intellettualistica che sceglie voluttuosi temi mitologici e oscuri temi allegorici per rappresentarli con cerebrale sensualità.
Le dame della corte dei Valois si disputarono l’onore di farsi ritrarre come dee nude di inquietante bellezza e nacquero così dipinti celeberrimi.
Diana di Poitiers, la favorita di Enrico II, la cui autorità suscitò un timore reverenziale, fu il primo ed uno dei più preveggenti arbitri del gusto, oltre che notissima per le sue grazie. Sue personificazioni mitiche, quali Diana cacciatrice, ora al Museo del Louvre di Parigi o il Ritratto di Diana di Poitiers nel Kunstmuseum di Basilea,  furono i soggetti di molti capolavori della pittura e della scultura del suo tempo.
Non serve perciò pensare che l’arte antica sia sempre e solo una roba noiosa, pesante e per soli appassionati o studiosi.
A volte può essere anche piacevole, molto piacevole.




martedì 2 settembre 2014

Un mondo fatto a cuore



Mappamondo turco-veneziano fatto a cuore
1559/1568 Venezia, Biblioteca Marciana
Lo vorremmo tutti un mondo fatto a cuore, suggestivo, emozionante e onirico. E se gli scettici non ci credono, esiste davvero e si può anche vedere, anche se solo dentro una vetrina.
E’ il mappamondo della Biblioteca Marciana a Venezia, restaurato pochi anni fa.
La storia del cuore potrebbe essere la trama di un fantasy: nei complessi e variegati rapporti di odio e amore tra Venezia e l’Islam, la cartografia aveva un ruolo di rilievo, tanto che Maometto II chiese, già nel 1479, una sagoma di Venezia a Gentile Bellini, che gli aveva fatto un ritratto incredibilmente bello.
Passa qualche anno, siamo a metà del Cinquecento, la richiesta dei Turchi Ottomani di mappamondi e globi era diventata davvero notevole e la Serenissima era considerata la potenza più forte e indiscussa nella cartografia. Ma loro erano musulmani, che comunque non gradivano che mani infedeli usassero i loro caratteri.
Ed ecco il colpo di genio: un gruppo di eruditi - il geografo Ramusio, il cartografo Gastaldi, l’orientalista Postel, lo stampatore Giustinian e l’incisore Nicostella da Magonza - partendo dal modello del 1511 tratto da Tolomeo, adorato dall’Islam, inventa questo cuore, trapunto da scritture in turco con sezioni riservate a nozioni geografiche, paesi, imperi, regni e principati.
Il pool occidentale aggiunge una sfera armillare e due tondi con le costellazioni celesti.
Uno spettacolo.
E non importa se l’Antartide o l’America meridionale sono frutto di congetture o se la forma appuntita non dà indicazioni perfette. Per non essere sgamati, si inventano tal Hajji Ahmed, che si autodefinisce «povero, meschino, impotente e indigente», però turco doc, quale autore di tal immane opera.
I musulmani ci cascano, nonostante la terminologia anche religiosa sia piena di refusi e di errori che un seguace di Maometto mai farebbe. Tant’è.
 

Un fiammingo con Tintoretto


Jacopo Robusti detto Tintoretto con Marten de Vos - La creazione degli animali - Venezia, Gallerie dell'Accademia
La creazione degli animali, il peccato originale e Caino e Abele: il colpo d’occhio per chi si affaccia nella sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia nel vedere insieme i tre dipinti del Tintoretto non è da poco.
Però. La differenza stilistica tra il primo e gli altri due è assolutamente evidente, quasi che Jacopo per creare una tassonomia di questo genere, una sequela di animali per lo più marini, si fosse sdoppiato, vestendo i panni di un fiammingo schizofrenico e maniacale.
E se fosse? Per Augusto Gentili, docente di storia dell’arte a Ca’ Foscari, è plausibile, anzi assolutamente verosimile.
E ha trovato anche il nome di quella che potrebbe essere la seconda anima di Tintoretto: Marten de Vos, pittore che da Anversa soggiorna a Venezia e lavora nella bottega di Jacopo tra il 1552 e il 1558. Giusto il periodo in cui la Scuola della Trinità, scomparsa per volere napoleonico e già nel 1630 trasferita per far posto al cantiere della Salute, commissiona al pittore le tele relative alla Genesi.
Però. Tre tele di questo argomento, ora perdute e di cui si ha notizia solo per via documentaria, erano già state commissionate al de Vos sempre dalla stessa scuola.
E Gentili afferma così che il dipinto, tradizionalmente attribuito al solo Jacopo, è in realtà un’opera a due mani. Abitudine peraltro consolidata in un ambiente in cui le commesse erano così tante ed importanti che l’aiuto della bottega era non solo fondamentale ma insostituibile.
La figura di Dio, un vecchio dalla lunga barba in una posa “volante”, è sicuramente creatura del grande veneziano, mentre la parte ordinata degli animali tipicamente fiamminga è di mano del de Vos. E le due firme saltano ancor di più agli occhi confrontando il primo dipinto con gli altri due, dove l’orizzonte è chiuso e non aperto all’infinito come nella creazione degli animali.
De Vos era uno specialista e Jacopo lo vuole con sé per affrontare un tema particolare come quello degli animali e della spazialità.
E’ comunque il maestro che decide sia l’impostazione del dipinto che la sua iconografia, in questo caso un po’ inconsueta e fortemente nutrita di cultura. Jacopo infatti trae ispirazione iconografica da un testo, il Genesi, che Pietro Aretino scrisse nel 1538 e nel quale faceva riferimento all’elencazione di animali e soprattutto di pesci.
Non solo. Jacopo si rivolge all’Aretino anche per l’iconografia del peccato originale, dove è evidente il ruolo primario di Eva, logico vista la fonte.
In un brano il buon Pietro, da vero misogino qual era, afferma che la colpa può essere solo delle femmine, data la loro leggerezza e la loro facilità a farsi concupire, sì che il demonio ci mette poco a convincerle perché non ragionano a lungo…